L’AJA — Le elezioni di mercoledì in Olanda hanno portato in Parlamento rappresentanti di 13 partiti, sulle 28 liste che si erano presentate, un risultato reso possibile dal sistema elettorale olandese, basato su un unico collegio nazionale e proporzionale senza alcuno sbarramento. La partecipazione al voto, 80 per cento, è stata la più elevata dal 1986 e superiore alle ultime elezioni generali (attorno al 75 per cento). I risultati ufficiosi mostrano una certa tenuta dei liberali del primo ministro Mark Rutte (da 41 a 33) e il collasso dell’altro partito di governo, i laburisti, passati dai 38 seggi del 2012 ai previsti 9 di questa tornata.
Inevitabile un governo di coalizione e le previsioni sono per un governo ancora guidato da Rutte che comprenderebbe, oltre i liberali, i cristiani democratici del Cda (da 13 a 19 seggi) e i liberali progressisti del D66 (da 12 a 19), cui potrebbero aggiungersi i 5 seggi della Christen Unie. La coalizione avrebbe tuttavia una maggioranza risicata di 76 seggi, che diverrebbe molto più solida con la partecipazione di Groenlinks (Sinistra Verde), il vero vincitore delle elezioni, passato da 4 ai previsti 14 seggi. Sembrerebbe esclusa la partecipazione dei laburisti, in piena crisi interna dopo la clamorosa sconfitta. Sullo sfondo il successo del Pvv di Wilders (da 15 a 20 seggi) e l’entrata in Parlamento con 3 seggi del Denk (“Penso”), partito formato da fuoriusciti turchi dal partito laburista.
Le elezioni olandesi hanno evidenziato cambiamenti e problemi che toccano più in generale l’Europa e, forse, l’intero Occidente. Il primo punto è la progressiva frammentazione dello scenario politico, che comporta l’inevitabile formazione di governi di coalizione, non solo in un sistema elettorale proporzionale come quello olandese. Queste coalizioni sono spesso eterogenee, con gravi difficoltà nel concordare un efficace programma comune, specialmente se nate da una conventio ad excludendum nei confronti di una determinata forza politica. E’ questo il caso dell’Olanda nei confronti del Pvv di Wilders, ma potrebbe essere esteso alla Francia per quanto riguarda i lepenisti o alla Germania verso Alternative für Deutschland.
La situazione è fortemente aggravata dalla perdita di senso, cioè direzione e obiettivi di marcia, dei partiti storici, per molti dei quali è ormai diventata ambigua anche la generica formula destra-centro-sinistra. Sotto una copertura ideale, anche i partiti tradizionali rispondevano a interessi specifici, normalmente però di larghi strati della popolazione. L’impressione è che gli attuali partiti seguano interessi più particolari o siano tenuti insieme solo dall’opposizione ad un’altra forza politica. Il risultato è, accanto alla disaffezione di una parte degli elettori, radicalizzazione da un lato e volatilità dall’altro di chi va a votare, con conseguente crollo dell’attendibilità delle previsioni, come più volte recentemente dimostrato.
Sotto questo profilo, le elezioni olandesi sembrerebbero diverse, per l’alta partecipazione degli elettori o anche per la loro prevedibilità. Wilders infatti non ha vinto, ma una presa del potere da parte dell’estrema destra era assolutamente impossibile e usata solo come una minaccia o in modo scaramantico. Se il collasso dei laburisti è stato effettivamente previsto, non del tutto prevista è stata la ripresa parziale dei liberali di Rutte, alla quale ha senza dubbio dato una mano il divieto ai ministri turchi di far campagna in Olanda per il referendum sull’ampliamento dei poteri a Erdogan. La partecipazione diretta del ministro degli Esteri, laburista, alla vicenda non è stata invece di nessun aiuto per il suo partito, probabilmente perché considerata poco di sinistra. E’ probabile che una parte degli elettori laburisti abbiano preferito la Sinistra Verde, esplicitamente di sinistra, ecologista, pacifista e aperta alla più ampia integrazione degli immigrati.
La strepitosa avanzata della Sinistra Verde, il successo in termini di voti e seggi del partito di Wilders e l’imprevista entrata in parlamento del Denk indicano il desiderio di formazioni politiche con posizioni chiare e identitarie. Secondo alcuni commenti olandesi questo risultato sarebbe discutibile: Wilders è un estremista con tendenze fasciste, i Verdi sono degli idealisti fuori della realtà, quelli del Denk sono agli ordini di Ankara. Queste critiche hanno probabilmente una parte di vero, ma questi risultati dimostrano, non solo per l’Olanda, che sempre più elettori chiedono di non essere trattati come clienti di un supermercato e vogliono qualcosa in cui credere, qualcuno che li rappresenti, che porti avanti i loro bisogni, le loro preoccupazioni e, perché no?, le loro paure. Pur senza farsi eccessive illusioni in proposito, un tempo si dava per scontato che questo fosse il compito dei politici.
Un ultimo punto è quello dell’identità, che ha contrassegnato la campagna elettorale di Wilders e dei suoi antagonisti, il primo per affermarla (“l’Olanda agli olandesi”), i secondi per metterla in discussione, considerandola quantomeno un ostacolo all’integrazione di altri. L’affermazione del Denk dimostra come l’identità sia una questione che riguarda tutti, una questione fondamentale che dovrà essere affrontata con serietà e in profondità, non liquidata con sufficienza o con epiteti tipo “populista, retrogrado, fascista”.
Dopo queste elezioni alcuni hanno tratto un sospiro di sollievo: il “diavolo” antieuropeo è stato sconfitto e verrà sconfitto anche nelle prossime elezioni. Invece il “diavolo” è proprio al centro dell’Unione Europea che, abbandonato l’afflato ideale di quelli che continua a chiamare “Padri fondatori”, pretende di sostituire l’identità con ukase burocratici, per di più destinati all’insuccesso.