Si è svolta ieri a Roma la Conferenza sulla Rotta del Mediterraneo centrale dedicata al contenimento dei flussi migratori provenienti dal Nord Africa. L’appuntamento è stato anticipato da un servizio del Corriere della Sera con “i segreti dell’accordo” siglato con la Libia (navi, addestramento e altri mezzi) e in più un articolo di Milena Gabanelli assai più simile a un programma politico (“Più stato e più risorse. l’Italia ce la può fare se l’Ue batte un colpo”) che ad un’inchiesta giornalistica, proprio come nel dicembre scorso. “Regolamentare, mettere sotto controllo i flussi migratori della rotta mediterranea — ha detto ieri a Roma Paolo Gentiloni — è una delle domande più forti che viene rivolta all’Ue. Non abbiamo molto tempo, abbiamo a disposizione per fortuna il coraggio del Consiglio presidenziale libico”. Il capo del governo di Tripoli Fayez al Serraj, sciogliendo le riserve all’ultimo minuto, ha partecipato alla conferenza di Roma. Ma forse è proprio Serraj (se si eccettuano i soldi europei) la maggiore incognita di tutta l’operazione. Ne abbiamo parlato con Michela Mercuri, esperta di relazioni internazionali nell’area mediterranea.
Serraj è l’interlocutore del nostro governo. Ma chi controlla attualmente il paese?
Il fatto che Serraj oggi (ieri, ndr) sia in Italia è un segnale importante, visto che soltanto ieri alcune milizie hanno attaccato la base navale di Abu Seta in cui il premier si è “riparato” fin dal suo insediamento lo scorso anno, facendo temere il peggio. Detto questo, però, resta il fatto che Serraj è ancora un premier debole di un governo che non governa. Nella sola capitale decine di milizie controllano porzioni limitate del territorio e non rispondono al premier. In questo momento non possiamo considerarlo, dunque, un interlocutore rappresentativo.
Qualcuno ha fatto notare che un summit operativo come quello di Roma senza la partecipazione di Khalifa Haftar ha poco senso.
Il generale Haftar controlla zone importanti dell’est libico, tra cui i pozzi della mezzaluna petrolifera, che produce il 70 per cento del petrolio libico. E’ appoggiato dai russi e dall’Egitto. Non può essere l’unico interlocutore della Libia perché neppure lui ha il controllo di tutto il territorio, ma per i motivi sopra accennati deve essere coinvolto nei vari processi politici e accordi diplomatici.
Ammesso di riuscire a controllare i migranti sulle coste libiche, nel frattempo che cosa succede nel profondo sud della Libia?
I flussi arrivano dal sud della Libia: Mali, Niger, Ciad. Passano attraverso il deserto meridionale libico per centinaia di chilometri. Qui ci sono gruppi jihadisti — come al Qaeda nel Maghreb islamico — ma anche varie bande e milizie che vivono di traffici. Né Haftar, né Serraj, né le milizie di Misurata, tanto per fare i nomi degli attori più accreditati sul territorio, controllano queste zone.
Questo cosa significa?
Che possiamo fare accordi per bloccare i flussi nelle zone costiere da cui partono i migranti e in cui ci sono molti dei centri di detenzione. E anche qui, come già ricordato, Serraj è poco rappresentativo. Ma nelle zone dell’entroterra libico non abbiamo nessun interlocutore con cui dialogare. Questo è un problema rilevante.
L’Italia ha dovuto farsi carico delle pressioni europee e ha assunto l’iniziativa politica. Non parliamo per ora dei 200 milioni garantiti dal commissario Ue Avramopoulos. Quali sono i rischi che corriamo?
Fare accordi con un governo che non controlla le milizie che gestiscono i flussi, in cui spesso è invischiata la guardia costiera libica che pure dovremmo addestrare e supportare economicamente, potrebbe essere un fallimento annunciato. D’altra parte, siamo il paese di destinazione dei flussi che partono dalla Libia — 180mila persone nel 2016 — e dobbiamo cercare di porre un freno a tale fenomeno. Non credo, però, che dare elicotteri, navi, radar eccetera a Serraj che, ripeto, non ha il controllo delle zone da cui partono i migranti, né della guardia costiera, sia una soluzione ideale. Prima bisogna creare una accordo politico più inclusivo e poi, eventualmente, erogare soldi e “attrezzature”. Altrimenti, è il caso di dire “soldi buttati”.
In Egitto ci sarebbero 5 milioni di migranti pronti a salpare.
Chiudere o limitare la rotta libica potrebbe implicare l’aumento dei flussi da altre rotte, compresa quella egiziana. E’ necessario per questo allargare i vari incontri diplomatici, come quello di Roma, anche all’Egitto. E’ fondamentale poi, per l’Italia, implementare, come già fatto da altri paesi europei — vedi la Germania — accordi bilaterali con i paesi di partenza (oltre alla Libia, Egitto e Tunisia) per i controlli alle frontiere e i rimpatri.
Che ruolo gioca oggi l’Italia in Libia?
Siamo l’unico punto di contatto occidentale a Tripoli con la nostra ambasciata. L’Eni è l’unica compagnia internazionale che estrae greggio e gas nel paese. Siamo i più solidi alleati di Serraj. Abbiamo molti punti di forza per assumere un’iniziativa politica e per mediare un accordo intra-libico. Sarà però necessario coinvolgere anche Tobruk e i suoi alleati, Russia in primis. Dialogare “alla pari” con Putin, visto che dopo la visita di Serraj a Mosca sembra intenzionato ad agganciare Tripoli e ad assumere un ruolo diplomatico di primo piano nella crisi libica, potrebbe valorizzare il ruolo — e le fatiche — dell’Italia. Viceversa, direi anche in questo caso “soldi buttati”.
Noi vendiamo mezzi alla Libia e addestriamo gli uomini. Se però l’operazione non funziona, anche in questo caso Serraj ha tutto da guadagnare. Che ne pensa?
Il rischio non è che Serraj tenga i nostri mezzi, quanto piuttosto che questi finiscano in mano alle varie milizie sul terreno. E’ quello che è accaduto in parte anche nel 2011, quando abbiamo armato i ribelli anti-Gheddafi per ritrovarci poi con delle milizie incontrollate e incontrollabili che spadroneggiavano e spadroneggiano nel paese anche con le nostre armi.
La convince l’ipotesi di campi di accoglienza in Libia?
L’idea di investire per migliorare le strutture di detenzione in Libia — 34 lager sparsi per il paese — non mi pare molto buona. In primo luogo perché molte di queste strutture sono controllate da miliziani che nulla hanno a che vedere con il governo di Serraj e dunque sarebbe pressoché impossibile arrivare in queste strutture per aiutare coloro che qui sono praticamente detenuti. In secondo luogo poi mi pare manchi ancora il “piano per il dopo”.
In altri termini?
Dove andranno tutti questi migranti? Soldi in cambio di contenimento dei flussi è il miglior modo per aumentare il numero di persone bloccate in condizioni di totale degrado. Ma è soprattutto il modo migliore per essere ricattati. La Turchia ce lo insegna.
(Federico Ferraù)