L’attentato di Londra —  esempio tipico del terrorismo 2.0 di cui abbiamo parlato su queste colonne, creato e teleguidato dall’ISIS o da al-Qa’ida reclutando per via esclusivamente telematica chi si dimostra aggressivo e violento su Internet, anche se poi capita che questi potenziali terroristi si uniscano in gruppetti di caseggiato o di quartiere — ha suscitato molta retorica sull’attacco al cuore dell’Europa, quasi che i morti a Beirut o a Karachi contino meno di quelli a Londra. 



Non ha ancora suscitato — avverrà, ma sulle riviste scientifiche, naturalmente lente a reagire, più che sui quotidiani — una riflessione su un tema forse più interessante, la fine ormai evidente dell’esperimento multiculturalista in Gran Bretagna. Un tema su cui, però, bisogna intendersi.

La parola “multiculturalismo”, infatti, è nata in Canada negli anni 1960 come evoluzione di “biculturalismo”, espressione ottocentesca creata per sottolineare la possibilità offerta alla comunità di lingua francese di mantenere la sua lingua e le sue tradizioni accanto a quella anglofona. 



Nonostante il separatismo sempre vivo nel Québec, l’esperimento è riuscito perché ai canadesi divisi dalla lingua è stata offerta quella che il sociologo inglese Tariq Modood ha definito una “narrativa comune”, un insieme di simboli e di riferimenti alla patria canadese cementati dal comune impegno nelle guerre mondiali. Il successo, relativo ma reale, del biculturalismo in Canada ha permesso nel XX secolo la sua trasformazione in  “multiculturalismo”, accogliendo anzitutto tre grandi comunità — cinese, italiana e giamaicana — che hanno mantenuto, molto più che negli Stati Uniti, la loro lingua e cultura.



In Gran Bretagna invece il multiculturalismo è diventato una parola d’ordine della sinistra e dei cosiddetti  “professionisti dell’anti-razzismo” dopo il 1968 e ha significato generosi sussidi statali e ampia autonomia per i vari gruppi etnici nigeriani, caraibici, indiani, pakistani. Ma la diffidenza di quella sinistra per il patriottismo ha impedito che agli immigrati fosse trasmessa una “narrativa comune” alla canadese. I problemi sono nati quando una rivendicazione di autonomia è stata avanzata da chi diceva di parlare per i musulmani che, a differenza degli italiani, dei cinesi e anche dei pakistani, non sono un gruppo etnico ma religioso, le cui domande vanno ben al di là della preservazione di una lingua, di una musica o di una cucina e investono la sfera fondamentale dei rapporti di famiglia e dei diritti umani.

Questo equivoco che confonde etnicità e religione ha, per così dire, imbastardito il multiculturalismo inglese, trasformandolo da rispetto per tradizioni culturali diverse che possono coesistere — all’interno, appunto, di una “narrativa comune” — in cedimento a pericolose pretese di musulmani fondamentalisti, che non sono certamente tutti i musulmani, di organizzarsi separatamente quanto al diritto di famiglia e alla gestione dei quartieri dove sono maggioranza.

L’alternativa, tuttavia, non è l’uniculturalismo alla francese o alla belga, che sostituisce il modello multiculturale con un laicismo imposto a tutti che abbandona ogni identità religiosa. Ad Anversa non ci è scappato il morto quasi per miracolo, ma sappiamo da casi precedenti che le banlieues del Belgio uniculturalista — dove si distribuiscono ai musulmani nati nel Paese opuscoli grotteschi che li invitano a essere orgogliosi dei primati belgi in materia di matrimoni omosessuali ed eutanasia — sono brodo di coltura di terroristi non meno delle periferie delle città inglesi multiculturaliste. 

Come ha ricordato il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin in un’intervista di qualche giorno fa, la soluzione passa per la faticosa costruzione di un equilibrio fra richiamo forte al rispetto dell’identità e della storia della maggioranza — che in Europa, come in America del Nord, è cristiana — e una libertà religiosa offerta a chiunque rifiuti senza ambiguità la violenza e il terrorismo e accetti di vivere secondo le regole della società che lo accoglie.