Il “complesso dell’accerchiamento” viene spesso utilizzato da regimi autoritari per radunare il popolo attorno all’uomo forte del momento. E’apparentemente il caso della Turchia, dove il 16 aprile si terrà un referendum sul passaggio a repubblica presidenziale, che darebbe ampi poteri all’attuale presidente, Recep Tayyip Erdogan. Dopo il fallito tentativo di colpo di Stato del luglio 2016, Erdogan ha avviato una vasta operazione di repressione dei fiancheggiatori del golpe, veri o presunti, instaurando un regime autoritario. L’epurazione è stata particolarmente estesa nei confronti di esercito e magistratura, principali pilastri della precedente Turchia laicista, e anche la libertà di espressione e stampa sta subendo notevoli limitazioni.
Questa deriva autoritaria, parallela a una sempre maggiore impronta confessionale, ha suscitato molte critiche all’estero, anche tra gli alleati Nato e nell’Unione Europea, che da quasi vent’anni sta valutando la candidatura della Turchia. Un primo grave scontro con l’Europa era avvenuto sulla questione dei migranti, nominalmente risolto con l’accordo voluto fortemente da Angela Merkel, secondo il quale la Turchia avrebbe regolato i flussi migratori in cambio di finanziamenti europei e la ripresa delle trattative con l’Ue. I risultati dell’accordo sono discutibili e hanno posto problemi anche al governo tedesco, e proprio dalla Germania è venuto il nuovo casus belli, con il divieto ad esponenti del governo turco di far campagna elettorale per il sì al referendum sul proprio territorio. Esempio poi seguito dall’Olanda e dall’Austria, scatenando pesanti reazioni da parte turca, con l’accusa di comportamento “nazista”.
Inoltre, Erdogan ha dichiarato che continuando in questo modo, “nessun europeo in nessuna parte del mondo potrà camminare sicuro nelle strade”: una dichiarazione molto stimolante per gli estremisti islamici. Ha anche affermato che dopo il referendum il governo turco rivedrà tutti gli accordi fatti con l’Europa.
Rapporti tesi anche con la Bulgaria, che ha denunciato interferenze turche nelle proprie elezioni, e con Norvegia e Danimarca, in seguito all’asilo politico riconosciuto a esponenti militari turchi. Né sembrano del tutto idilliaci i rapporti con gli Stati Uniti, a partire dalla richiesta di estradizione di Fethullah Gulen, negli Usa dal 1999, ex alleato di Erdogan e ora accusato di aver ispirato il fallito golpe. Fortemente inviso al governo turco è poi il sostegno fornito dagli americani alle milizie curde; in più, Ankara è stata estromessa dalla coalizione che condurrà l’attacco finale a Raqqa, capitale dell’Isis in Siria. Estromissione concordata con i russi, o comunque non bloccata da Mosca, con cui i rapporti, sempre piuttosto ondivaghi, non sembrano al momento particolarmente distesi. Anche i russi hanno cominciato a sostenere militarmente i curdi, in concorrenza o in accordo con gli americani è difficile stabilire. Con la Russia rimane poi aperta la questione della Crimea, la cui annessione non è riconosciuta dal governo turco, erettosi a protettore dei tatari di Crimea, minoranza in patria dopo la deportazione in Asia Centrale decisa da Stalin. La Crimea rientra in uno dei rami della strategia espansiva di Erdogan, quello verso le repubbliche ex sovietiche che fanno parte dell’area linguistica ed etnica turca, come il Kazakistan. La Crimea è stata teatro a metà dell’800 di una guerra tra l’Impero Russo e quello Ottomano ed ecco l’altro ramo della politica di Erdogan, quello neoottomano. Qui un ostacolo notevole è dato dal nazionalismo arabo che, sostenuto dagli inglesi (Lawrence d’Arabia), contribuì durante la Prima guerra mondiale alla caduta dell’Impero Ottomano. In questa luce avrebbe senso il tentativo di riportare in Turchia il califfato, eliminato nel 1924 da Ataturk con l’abolizione del sultanato e la costituzione della repubblica. In fondo, l’Isis ha aperto la strada a questa ipotesi, che agli occidentali appare bizzarra come lo sarebbe la pretesa di ricostituire il Sacro Romano Impero. Per molti musulmani è invece l’espressione più significativa di quella simbiosi tra religione e politica che caratterizza l’islam. Tuttavia, anche questa strada è in salita e troverebbe l’ostilità dei sauditi, custodi dei luoghi santi, e di tutto il mondo sciita, per non parlare di regimi militari come quello egiziano.
In questo quadro, per Erdogan è essenziale vincere il referendum, pur cosciente che il suo ambizioso programma dovrà fare i conti con una situazione resa ancor più difficile dalla vasta gamma di conflitti da lui stesso provocati per favorire quel “complesso dell’accerchiamento” di cui all’inizio. Se lo perdesse, la situazione interna in Turchia diventerebbe molto difficile, con disastrosi riflessi sull’intera regione. Un segnale d’allarme che Stati Uniti, Russia e Unione Europea farebbero bene a raccogliere, mettendo da parte le loro conflittualità, almeno in quest’area.