Non sappiamo con esattezza cosa si sono detti Fayez Serraj, premier del governo libico a marchio Onu, e il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov nel recente incontro di Mosca del 2 marzo ma, a quanto pare, il clima era molto disteso e cordiale. Molti ora si chiederanno: “ma Putin non sosteneva Haftar?”. Non più come prima, verrebbe da rispondere.
Si badi bene, non si intende dire che Mosca abbia abbandonato il generale, ma soltanto che sembra voler assurgere ad attore diplomatico indispensabile per tentare di dipanare la complessa questione libica, agganciando anche il governo di Tripoli. Un ruolo che il leader del Cremlino ha già ricoperto in Siria, passando da “parte in causa”, specie dopo l’intervento diretto del 30 settembre 2015, a “stabilizzatore geopolitico”. Durante i negoziati di Astana l’attivissimo Putin non solo ha coordinato i lavori con Turchia e Iran, attori che neppure con un notevole sforzo di immaginazione avremmo immaginato alla stesso tavolo, ma ha anche presentato una bozza di costituzione per il paese.
Anche in Libia, con le dovute differenziazioni, Putin sembra voler passare da un coinvolgimento diretto ad un ruolo diplomatico. Giova fare un passo indietro. Quando il 17 marzo 2011 il Consiglio di Sicurezza dell’Onu approvava la risoluzione n. 1973, che consentiva di prendere “tutte le misure necessarie”, tranne l’occupazione militare, in difesa della popolazione civile libica contro Gheddafi, la Russia si astenne. In realtà era contraria ai bombardamenti e per questo venne estromessa nella partita per il bottino libico che da lì a poco ebbe inizio. Passa qualche anno, tre per l’esattezza, e la Russia, sempre più impegnata in Siria, si accorge che tutti quegli attori internazionali che avevano spinto per l’azione militare in Libia (leggasi Francia) e quelli che l’avevano sostenuta più per pigrizia che per reale convinzione (leggasi Usa) avevano miseramente fallito.
Ancora una volta la realpolitik dell’interesse nazionale aveva avuto la meglio sul ruolo delle organizzazioni internazionali che parlavano di concertazione e “si illudevano di pace”.
Era il momento, per Mosca, di prendersi una rivincita e infilare un gol praticamente a porta vuota. Entra, così, a gamba tesa nel quadrante libico. Passando dall’est e sfruttando la sponda del Cairo, inizia a sostenere Tobruk. Vende armi ad Haftar, attraverso triangolazioni estere con l’Egitto (e probabilmente anche con l’Algeria) e immette soldi nelle casse della banca centrale di Beida, 200 milioni di dinari distribuiti nell’est del paese per fare fronte alla crisi di liquidità e per stipendiare le milizie di Haftar. Il matrimonio di interessi sembrava fatto. Ma ora le cose paiono aver preso un’altra piega.
I motivi sono molti. In primo luogo il Cremlino ha tutto da guadagnare, in termini di immagine, patrocinando un ravvicinamento tra Serraj e Haftar, per ristabilizzare un’area che l’occidente ha gettato nel caos intervenendo militarmente nel 2011. In secondo luogo il generale della Cirenaica, che si dice sia anche molto malato, si è dimostrato un alleato utile ma “bizzoso”. Ha fatto fallire in men che non si dica i colloqui del Cairo dello scorso febbraio, rifiutandosi di incontrare Serraj. Questo potrebbe avere infastidito non poco Mosca.
Resta ora da comprendere come Putin potrebbe sbrogliare il bandolo della matassa libica. Forse per capirlo dovremmo allargare lo sguardo ben al di là della Libia, per lo meno verso il confine egiziano e iniziare a parlare in termini energetici. Noteremo allora che lo scorso dicembre l’italiana Eni ha concordato il passaggio al gigante petrolifero russo Rosneft di una quota del 30% della concessione di Shorouk, nell’offshore dell’Egitto, nella quale si trova il giacimento di Zohr.
Il Fondo sovrano qatariota Qatar Investment Authority (Qia) ha acquisito, poco più di un mese fa, il 19,5% del capitale di Rosneft — detenuto in quote simili anche dalla British Petroleum — grazie al sostegno economico di Intesa San Paolo. Sempre la Rosneft, lo scorso 21 febbraio, ha siglato un accordo di cooperazione con l’ente petrolifero libico National Oil Corporation (Noc).
Il quadro potrebbe sembrare confuso. Cerchiamo di fare chiarezza. Italia e Qatar, per motivazioni e con modalità diverse, sono vicine a Tripoli, l’Egitto ad Haftar. Tutti hanno più o meno puntato su Rosneft e hanno dunque interesse che le sue “manovre” abbiano successo. Putin facendo perno sulla compagnia russa, ma anche sui suoi “successi diplomatici siriani”, diventa il deus ex machina che può muovere i fili della partita. Un ruolo utile anche per mediare un accordo tra gli attori regionali e internazionali che a vario titolo supportano le fazioni libiche. Nulla di nuovo, si tratta della cara vecchia diplomazia energetica che in Libia ha sempre ben funzionato. Enrico Mattei ce lo ha insegnato tempo fa.