Il World economic forum tenutosi a Buenos Aires dal 5 al 7 aprile è stato un evento di grande importanza, ma anche di incertezza per il futuro non solo dell’America Latina (a cui era dedicato), ma per il mondo intero. Il Continente sudamericano, dopo anni di oblio “mediatico” nei quali però alcuni Paesi hanno iniziato a trasformarsi in potenze economiche (Brasile sopra tutti), sta emergendo e vuole proporsi non solo come area del mondo dotata di grandi risorse, materie prime che hanno finora supportato la sua economia, ma anche come un’entità dove si sta raggiungendo un’omogeneità a livello di interscambi (si pensi a una sempre più grande integrazione tra il Mercosur e l’Alleanza del Pacifico, che raduna gli Stati affacciati su questo oceano) e soprattutto un’apertura nei riguardi di un mondo immerso in una crisi economica sempre più profonda alla quale quest’area può fornire risposte vitali.
In America Latina si sono sviluppati, attraverso libere elezioni, molti Governi populisti, che però hanno fallito la loro missione e messo a nudo le caratteristiche di un sistema che, con la scusa del concetto nazionalpopolare, non solo ha perso occasioni mondiali di progresso, ma ha completamente fallito il suo principale obiettivo: quello dell’inclusione. Che in verità c’è stata, ma come fenomeno legato a un un sussidio di cittadinanza (per definirlo in termini europei) che non ha permesso uno sviluppo, rimanendo spesso legato più a un interscambio politico che a una piattaforma per cercare un inserimento sociale che è mancato non solo a causa della crisi mondiale, ma per il lento e inesorabile crollo della cultura del lavoro.
Ormai nelle zone più povere di questo Continente non è difficile incontrare persone che appartengono a tre generazioni differenti unite da un fattore comune: quello di non aver mai lavorato, adattandosi alla “elemosina di Stato”. Ma allora i giganteschi introiti accumulati negli anni con la vendita delle materie prime dove sono finiti? Nelle tasche di minoranze e soprattutto di Governi che, attraverso la dilagante corruzione, hanno finito per bloccare lo sviluppo economico dei loro Paesi frenando gli investimenti. Almeno fino a oggi, visto che il cambiamento politico radicale ha provocato un’apertura di questi Stati verso il mondo e anche l’inizio di manovre per rivoluzionare la società, attraverso una lotta incisiva alla criminalità, realizzata anche mediante la presenza dello Stato negli agglomerati più poveri, recidendo il potere soprattutto del narcotraffico che le aveva occupate e iniziando una lotta contro la corruzione non solo attraverso una giustizia indipendente (che in molti Stati sta iniziando a operare o è in fase di sviluppo), ma anche sopratutto cominciando a dare segnali di una conversione delle varie Repubbliche che formano il Sudamerica all’essenza del concetto di Stato di diritto. E tutto questo per le pressioni della gente, se pensiamo alle manifestazioni gigantesche avvenute in Brasile in appoggio al “Lava Jato” (versione carioca del Mani Pulite) o a quella, altrettanto grande, autoconvocatasi il 1 aprile in tutta l’Argentina come risposta alle minacce golpiste e antidemocratiche emerse nel corso della manifestazione del 24 di marzo, anniversario della dittatura genocida del 1976, con l’esaltazione della lotta armata e discorsi molto simili a quelli dei militari genocidi, fatti anche da organizzazioni che dovrebbero occuparsi di diritti umani (ma ormai ultrà di passati Governi corrotti).
Dato curioso: il forum dedicato alla lotta contro la corruzione ha registrato la minore partecipazione, in un summit pieno di imprenditori… Su tutto l’evento ha stazionato perennemente la quarta rivoluzione industriale, che a detta di molti osservatori presenti produrrà effetti negativi superiori alla somma delle precedenti: problema mondiale è che la robotizzazione esasperata e la tecnologia sono ormai a un livello incredibile (basti pensare che le stampanti 3D ormai entrano nei processi costruttivi non solo edilizi, ma pure di altissima tecnologia, per esempio la produzione di turbine per aerei) e rischiano seriamente di aumentare l’esclusione sociale portandola a livelli critici.
Cosa fare? E qui è venuto fuori l’unico apporto italiano che ha visto l’assenza totale del nostro Paese all’evento. Ricordate l’italico slogan “Lavorare meno ma lavorare tutti!”? Eccolo riapparire come la soluzione (logica) per affrontare la crisi almeno temporaneamente, eliminando gli “straordinari” e riducendo l’orario individuale di lavoro per permettere una maggior inclusione, che significa anche sviluppare i mercati interni. I fondi si potrebbero reperire anche applicando una tassa sulla tecnologia, ma i rimedi sono temporanei per una rivoluzione che ha già mietuto vittime negli Stati Uniti e provocato l’elezione di Trump con il rischio di replicarsi in Europa da parte di movimenti populisti.
Ma c’è dell’altro: un’altra ombra ha aleggiato, quella della situazione in Venezuela che più passano i giorni più rischia di risolversi con quello che l’America Latina ha già abbondantemente provato al punto di rifiutarlo categoricamente: l’uso della violenza come soluzione di catastrofi politiche e sociali alle quali la diplomazia internazionale pone rimedi inefficaci e basati su di una visione alquanto distorta della situazione. E anche questo problema è stato dibattuto, ma in una riunione a porte chiuse.