L’elemento che caratterizza il sistema internazionale è quello dell’instabilità. Un’instabilità che si genera, prima che dal rapporto esistente tra gli stati, dagli stati medesimi ché tutti sono scossi da una peristaltica decostruzione dei loro sistemi istituzionali o dall’incompiuta realizzazione istituzionale.



Volete degli esempi? Per quanto riguarda il secondo aspetto, pensate alle Afriche, da nord a sud e da est a ovest. Quello che non si riesce a fare è lo state building, ossia l’autonomizzazione dello Stato dalla società civile. L’ordine burocratico legal-razionale non si invera e il clanismo e il tribalismo la fanno da padrone. Il Congo e la Nigeria sono due esempi preclari: meccanismi di successione al potere non si realizzano e non certo per la mancanza di processi democratico-elettorali, ma per la neutralizzazione di essi da parte di una dirompente e antropologicamente devastata e devastante società civile. Non è un caso che gli unici plessi territoriali che potremmo chiamare nazioni dove questo si realizza sono o la cristallizzazione di processi millenari, come l’Egitto militarizzato erede dell’impero dei Faraoni, o la nascente democrazia tunisina costruita sul lascito cartaginese, o ancora la monarchia marocchina, sacrale e discendente diretta del Profeta, come è quella hascemita che sopravvisse alla cacciata dalla Mecca per opera dei sauditi-wahabiti, e al suo trapianto per mano inglese in terra giordana. E poi c’è l’uso della violenza, agghiacciante e cristallizzantesi in istituzioni, come l’apartheid sudafricano, che ora è sfociato carismaticamente in democrazia.



Ma tutto è instabile, l’Organizzazione dell’unità africana è solo una camera di compensazione e le ferite della divisione africana tra Occidente e Unione Sovietica sono ancora tutte lì, con lo sfacelo somalo ed eritreo e il crollo di un impero secolare come quello etiopico. E ora anche gli Stati del Golfo persico cominciano a dividersi e a mettere in discussione il dominio saudita. Il fallito tentativo di abbattere l’Iran teocratico per mano irachena è fallito. E quel fallimento non poteva che elevare a potenza minacciosa lo stesso Iran, sconvolgendo il sistema di alleanze dei sauditi e creando quella divisione mesopotamica della mezzaluna sciita che da Teheran giunge a Damasco e minaccia Beirut.



I danni della mancata spartizione del mondo tra Russia e Usa dopo la caduta dell’Urss, emerge come non mai, appunto, in Nord Africa e in Medio Oriente. Il Medio Oriente, o meglio, la Mesopotamia, è il punto archetipale che tiene insieme l’Heartland e il Mediterraneo, e non a caso nel Mediterraneo e nell’Oceano indiano e nel Mar Cinese del sud si scaricano tutte le contraddizioni dell’instabilità odierna. Il Mediterraneo non è più un’ansa dell’Atlantico, ma la quintessenza e l’emblema di un vuoto politico: i migranti che dall’Africa e dalla Mesopotamia risalgono dal Mediterraneo e dagli stati balcanici l’Europa del Sud per dirigersi verso quella centrale e nordica. Ma qui trovano l’altro, clamoroso processo di deistituzionalizzazione. Ovvero la crescente frammentazione e disgregazione delle istituzioni di secondo grado, ossia sovranazionali, dell’Unione europea.

Qui si consuma il fallimento più grande della seconda metà del Novecento. È fallito il tentativo di tenere insieme il plesso di nazioni da cui tutto nasce nel mondo, ossia il mito illuministico-massonico che la teocrazia laica funzionalista potesse essere in grado non solo e non tanto di creare diritto e moneta, ma anche sistemi di senso e di legittimazione sottraendo per sempre l’Europa alla democrazia rappresentativa: Rousseau e Montesquieu dovevano morire. Ed è questa morte che crea lo squilibrio internazionale che promana dall’Europa, perché il culmine del processo di istituzionalizzazione risiede da sempre nella creazione delle burocrazie militari. Come è noto, esse continuano la politica con altri mezzi, ed è per questo che l’Europa non riesce a crearle, perché ha ucciso la politica.

Di qui il vuoto internazionale provocato dall’Europa con conseguenze che possono essere devastanti. Le uniche due potenze nucleari europee, la Gran Bretagna e la Francia, perseguono disegni strategici di lungo periodo stand-alone, ovvero vogliono fare da sole. Il Regno Unito con la Brexit e il ritorno agli anni Cinquanta-Sessanta, quando si rifiutò di entrare nel Mec. Ora il piano è quello dell’anglosfera, del grande disegno di un governo della potenza militare ed economica rifondata sulle terre del Commonwealth e della strategia ottocentesca del “sistema economico americano” che Henry Clay propugnò, suscitando l’ammirazione di Lincoln e fondando le basi del nazionalismo economico americano, su cui Andrew Spannaus ha scritto recentemente.

Quello che era, in primis, un disegno anti-inglese, perché la nascente Repubblica americana non voleva finire come finì l’India con il dominio britannico, diviene ora un modello internazionale di neo-industrialismo e di neo-protezionismo selettivo che altro non farebbe che dare forma istituzionale a ciò che accade nel commercio mondiale da circa trent’anni, con la fine dei trattati multilaterali e il crollo delle compagnie della logistica mondiale. Ma se il Regno Unito tende a una nuova prospettiva mondiale, la Francia tende a una profonda intensificazione del suo ruolo di grande potenza in Africa. Dal Nord Africa al Centro Africa subsahariano a Gibuti, non solo le merci e i sevizi, ma le armi francesi sono al lavoro per la realizzazione di un disegno imperiale.

Il tutto non fa che esacerbare l’attrito, tutto wagneriano, tra il delirio economico da superpotenza e l’inanità militare della grande potenza culturale tedesca. Essa ha realizzato un’egemonia ideologica con l’ordiliberalismus, ha realizzato un’egemonia economica nel commercio mondiale con il suo surplus, ma è colpita dalla sindrome dell’impotenza perché la sua orrenda storia le proibisce di trasformare tutto ciò in potenza militare. La prima conseguenza di ciò è la castrazione della Nato, che doveva realizzare l’alleanza transatlantica tra Usa ed Europa e che è oggi il primo punto d’attrito tra una grande potenza alla ricerca di una nuova identità (gli Usa) e un’Europa che non ne ha mai posseduta una. Il volto europeo non può che far proiettare in primo piano sull’arena mondiale tanto la Russia quanto gli Usa.

È il vuoto europeo che crea l’inevitabile duopolio Usa-Russia, è una forza centrifuga inevitabile provocata dall’assenza di questo specifico dell’Europa, che non è né unita, né armata. Ma essere attratti dal vuoto piuttosto che dalla convivenza vissuta come autocoscienza è il fulcro stesso dell’instabilità. Ciò che succede in Siria e in Ucraina altro non è che la conseguenza di essere stati un tempo incapaci di disegnare una nuova Yalta, dopo la caduta del Muro di Berlino. Più consapevoli di ciò sono da un lato i burocrati imperial-militari Usa, che oggi controllano Trump senza potergli impedire di compiere gesti che il presidente non controlla sino in fondo, e ciò evita guai incommensurabili. Si veda lo one shot in Siria: più una rappresentazione a uso interno che un attacco ai siriani e ai russi. Si veda l’Ucraina, dove Minsk continua a rimanere un sogno e la Russia continua a tenersi ben stretta la base di Sebastopoli. Si veda la Svezia, nazione che ritorna alla leva militare, l’esercito di popolo che chiama alle armi contro il nemico secolare, come se fossimo tornati ai tempi della prima Russia zarista.

In tutto questo tormentoso orizzonte è sorta da circa dieci anni, come Atlantide, la Cina completamente trasformata di Xi Jinping, che non si regge più sulla regola di Deng di non ammazzarsi più a vicenda tra burocrati del capitalismo monopolistico di stato asiatico, ma – oltre che sull’accettazione pragmatica di massa degli strati intermedi e popolari della nazione – sul terrorismo dispiegato camuffato da lotta alla corruzione e sul ritorno alla politica maoista del potere che sta sulla punta della canna del fucile. La Cina ha messo fuori squadra tutte le teorie e le pratiche del dominio mondiale. Con il suo mostruoso peso demografico ha illuso tutti che avrebbe dominato la terra minacciando l’India e la Siberia russa, in realtà inverando le teorie del nordamericano generale Mannhon per il quale il potere mondiale o è marittimo o non è. Non ci si illuda sulla Via della Seta: basta una cannonata russa per distruggere un treno. Non è per quella via che la Cina vuole dominare il mondo. Il mondo lo si domina dal mare, quel mare che sono le perle della “collana” che sale da Shangai a Ceylon a Gibuti su su per il canale di Suez al Pireo, oppure dalle Filippine e Sumatra fino a Peerth in Australia.

Tutto il sistema di potere del Pacific Realm è stato messo in discussione a partire dalla solidità stolida e rassicurante della Corea del Sud e del Giappone. In questa luce la follia atomica della Corea del Nord altro non è che un gioco di specchi per farci dimenticare il pericolo della collana di perle ed estenuare le piccole e grandi potenze mondiali in un negoziato e in un contenimento sfinente come fu, è e sarà quello con l’Iran. Gli Usa di Trump sono collocati al centro di questo burrascoso Oceano ed è naturale che abbiano come primo riferimento la Russia. Ma mentre gli Usa non hanno un pensiero strategico, ma solo pulsioni contenute dalla burocrazia militare imperiale, la Russia il pensiero strategico ce l’ha. È quello di Primakov, il geniale primo ministro e ministro degli Esteri prima di Eltsin e poi di Putin, alla morte del quale Lavrov è salito su un ponte di comando di una grande potenza che dalla guerra di Crimea in poi ha avuto chiaro il suo fine strategico. È una storia che inizia in quella metà del secondo Ottocento che ancora oggi fonda l’equilibrio di potenza mondiale.

Dopo la guerra di Crimea, la Russia ha infatti imparato che può essere solo ciò a cui la destina la sua spiritualità e la sua cultura, ossia una potenza eurasiatica, ma solo se domina l’Heartland, ossia affonda le sue radici tanto nei mari caldi del Mediterraneo, quanto in quelli turbinosi del Pacifico. Un disegno strategico e potente, perfetto, entusiasmante, quanto debole e gracile dopo il crollo del Comecon, il corpo economico dell’impero russo che quella strategia dovrebbe inverare. Un altro fattore di instabilità e di fibrillazione mondiale permanente.