L’esperimento della super-bomba Moab in Afghanistan è un segnale chiaro, inequivocabile. “Nel giro di 48 ore rischiamo di trovarci in guerra”, spiega al sussidiario Mario Mauro, ex ministro della Difesa nel governo Letta. “Ma ciò che più sorprende è che di questo rischio non sembra esserci la minima consapevolezza. Né degli effetti collaterali”. 

Perché così presto, senatore Mauro?

Kim Jong-un ha annunciato un test in concomitanza con l’anniversario della nascita del “presidente eterno” Kim Il-sung (15 aprile 1912, ndr). La preoccupazione di Washington è legata a circostanze concrete, non solo alla valenza politica del messaggio: con il nuovo esperimento nucleare il Pentagono teme un repentino avvicinamento agli standard che consentirebbero alla Nord Corea di far poter minacciare sul serio gli Stati Uniti con il lancio di missili balistici.

Ci sono delle prove?

Sì. Le foto delle rilevazioni satellitari del Pentagono sui siti nordcoreani sono state mostrate a Xi Jinping al vertice di Mar-a-Lago (Florida) e qualche giorno prima al primo ministro giapponese Shinzo Abe. Tant’è che in queste ultime ore Abe ha chiesto ai propri stati maggiori di rivisitare completamente lo schema organizzativo del 1996 adottato per una crisi di questo tipo.

Sarebbe?

L’apertura di operazioni di carattere convenzionale sul territorio coreano spingerebbe in Giappone decine di migliaia di profughi e in questi profughi potrebbero sicuramente esserci degli infiltrati nordcoreani. 

Insieme alle direttrici più ovvie di Sud Corea a Cina. Qual è il ruolo di Xi Jinping in questa crisi?

Xi è stato esortato da Trump — e su questo Abe è d’accordo col presidente americano — a esercitare tutta la pressione possibile perché questo esperimento non si faccia. Ed è al corrente delle intenzioni americane. Su questo la Cina si è espressa: le preoccupazioni “preventive” degli Usa sono comprensibili, ma chi si assume la responsabilità del conflitto in Nord Corea deve sapere che non ci saranno né vincitori né vinti. Lo ha fatto capire molto bene il ministro degli Esteri Wang Yi incontrando due giorni fa l’omologo francese Jean-Marc Ayrault. 

In pratica cosa significa?

I cinesi immaginano, e secondo me non hanno tutti i torti, un livello di complicazione tale in una possibile escalation che effettivamente il gioco di punire Kim Jong-un non varrebbe la candela. Nemmeno per gli americani.

Da cui l’ammonimento di Xi Jinping sulla necessità di una soluzione politica. Ha ragione?

Il rischio è molto alto, perché l’apertura di uno scenario di guerra nel Pacifico implica potenze belliche di ben altro tenore rispetto a quel che vediamo nel pur doloroso e intricatissimo scenario mediorientale. E in Siria ci sono 23 eserciti che si combattono. Una crisi nel Pacifico vorrebbe dire necessità di riarmo per il Giappone, frizioni con la Russia. Insomma, la riapertura di scenari che credevamo chiusi per sempre. Senza contare la Cina.

Cosa farebbe Pechino? Anche questa è una grande incognita.

La Cina è l’ultima a volere un confronto di forza con le altre grandi potenze, ma se chiamata in causa dovrebbe sciogliere nodi politici talmente complessi che difficilmente riuscirebbe a farlo se non in modo traumatico. 

Dovrebbe decidere cosa fare con la Nord Corea.

E questa, probabilmente, è anche la ragione vera che spinge Trump a comportarsi come sta facendo. Ma non è detto che gli esiti siano quelli che lui immagina. Costretta a scegliere tra Nord Corea e Stati Uniti, dovendo riconfermare quanto meno a se stessa le sue tradizionali alleanze, c’è da sperare che non faccia la scelta che non osiamo immaginare, quella di difendere la Nord Corea.

Ma a quali criteri sarebbe ispirata un’opzione del genere?

Sarebbe coerente con il ruolo che tradizionalmente la Cina ha in quello scacchiere: la leadership e il controllo del Pacifico. In concorrenza con il Giappone. 

In pochi giorni abbiamo assistito ad una accelerazione politica impensabile fino a poco tempo fa. Che cosa è accaduto, sotto la pelle degli eventi contingenti?

Da Yalta a questa parte, per la prima volta, la guerra è realmente possibile. Abituati alla pace, è come se non riuscissimo a soppesare del tutto questa eventualità, ma ci sbagliamo. Invito chi può a rivedersi la conferenza stampa Tillerson-Lavrov del 12 aprile. 

Testualmente: “profonde differenze”, “rapporti Usa-Russia ai minimi”, eccetera.

In questi casi il non-detto è sempre peggiore delle dichiarazioni ufficiali. Ovvero: vorremmo capirci, ma nonostante la buona volontà non ci riusciamo. E visto che insieme e con le buone non riusciamo a trovare soluzioni ai problemi, restano solo le vecchie maniere. 

Una sconfitta totale della politica

Sì. Un loop in cui le grandi potenze non vedono più nella guerra uno strumento per suffragare un proprio disegno di potenza, ma un fatto inevitabile perché di comune accordo non si riesce più a risolvere nulla. 

Cosa si deve fare per salvare la pace?

Se immaginiamo di poter riesumare, nonostante le dichiarazioni di Trump, uno strumento farraginoso e desueto come il consiglio di sicurezza dell’Onu, è arrivato il momento di farlo.

(Federico Ferraù)