I cittadini turchi sono chiamati oggi a votare la riforma costituzionale voluta dal presidente Erdogan. Se ci fermiamo alle questioni tecnico-giuridiche, essa non è di per sé più accentratrice e vessatoria di molte transizioni costituzionali inaugurate con le rivolte arabe avutesi tra la fine del 2010 e l’inizio del 2011. Erdogan vuole passare da un modello repubblicano-parlamentare, che in Turchia ha funzionato con alterne fortune, a un sistema verticistico di tipo marcatamente presidenziale. Quando ci sono dinamiche politiche chiare, lo snellimento amministrativo e la distribuzione funzionale dei poteri verso il vertice dello Stato non necessariamente minacciano l’ordine democratico. Al contrario, in base all’organicità delle riforme, possono puntellare il sistema e renderlo più efficiente. Quando le dinamiche politiche sono ambigue, d’altra parte, rafforzare esageratamente il vertice dell’organizzazione statuale significa dare ai detentori del potere l’opportunità di chiudere ogni spazio alle opposizioni. Non serve essere detrattori di Erdogan per capire che, dopo il presunto tentativo di colpo di Stato dello scorso anno, il presidente turco muova verso questa seconda direzione. Non serve esserne sostenitori per affermare che la Turchia ha urgente bisogno di riforme e che, nel gioco dei poteri nazionali, l’esercito, alcune magistrature e persino le autorità religiose hanno puntato a influenzare stabilmente la politica locale, senza avere le attribuzioni formali per farlo.



Erdogan sta utilizzando il bastone e la carota per selezionare il tipo di opposizione che preferisce: ha persino innalzato il numero dei seggi parlamentari, il che incontra certamente il favore delle forze politiche. Ha offerto rassicurazioni sulla riforma della giustizia, ha promesso un utilizzo non invasivo dello stato di emergenza, ha riordinato anche profili di economia e bilancio – visto che la partita del consenso si gioca ovunque soprattutto sulle condizioni materiali della popolazione.



D’altra parte, negli ultimi due anni la stretta sulle libertà politiche è stata palese e ha riguardato non tanto gli esponenti degli altri partiti principali (quello repubblicano dei nazionalisti laici e quello di azione nazionale, legato al gruppo estremista dei Lupi Grigi), quanto i deputati indipendenti eletti nelle circoscrizioni territoriali, l’associazionismo politico-accademico, i sostenitori della questione curda.

Il quadro appare quanto mai composito, visto che sulla carta il partito di Erdogan (Partito per la Giustizia e lo Sviluppo) rappresenta l’islamismo politico moderato e il liberalismo conservatore, con alcune componenti interne prudentemente definibili persino “europeiste”.



E sul voto incombe anche l’interesse degli osservatori stranieri. La Russia e l’Iran guardano alla Turchia per rafforzare la loro capacità d’azione fuori dall’unilateralismo statunitense, ampiamente in crisi negli equilibri medio-orientali. Ed è anche interesse degli oppositori esteri di Erdogan che la situazione politica turca non degeneri, creando ulteriori disordini e conflitti sociali che accenderebbero una miccia pericolosa proprio sul Mediterraneo. La tesi è presto detta: senza la Turchia, non si può puntare a una vasta pacificazione regionale. È dietro argomenti del genere che gli Stati occidentali hanno spesso scelto contraddittoriamente e ambiguamente la Turchia come alleato nella lotta al terrorismo: l’affermazione militare sta avvenendo, l’Isis è in crisi, ma il contributo turco appare indecifrabile e la crisi interna dello stato islamico non rende meno pericolosi i suoi affiliati già attivi in Europa.

In questo calderone, Erdogan può permettersi di lasciare irrisolte due grandi questioni su cui la stessa Turchia meritava di vedere all’opera più di qualche cambiamento. Si sono chiusi gli spazi per un’amnistia equa e sistematica relativa ai crimini politici – nella cui cornice troveremmo non pochi oppositori in realtà privi di sostanziale pericolosità sociale – e per il superamento degli statuti giuridici differenziati a danno della minoranza curda. Erdogan ha temi più gravosi in agenda e l’Occidente ben gli sta concedendo di avere un’agenda così fitta e confusa. La partita referendaria ne è una voce importante, non quella decisiva.