Che fare con la Turchia? Il successo al referendum rende Recep Erdogan in grado di costruire, grazie alla nuova Costituzione, un regime di democrazia illiberale. Il presidente diventa un autocrate elettivo che ha il potere di governare direttamente, con un parlamento ridimensionato a un ruolo di sostegno, una magistratura al guinzaglio, una stampa a libertà limitata se non ridotta al minimo. Più l’introduzione della pena di morte che taglierebbe fuori il Paese da un’eventuale adesione all’Unione europea. E tuttavia la Turchia è un Paese chiave, anzi più che mai una cerniera tra Oriente e Occidente, tra mondo cristiano e islam, importantissimo per gli equilibri di quello scacchiere rovente che va dalla Russia al Mediterraneo.
Le prime reazioni sono preoccupate, ma caute. Gli osservatori dell’Osce hanno contestato che siano valide le schede non timbrate; Berlino si aspetta un dialogo con l’opposizione la quale, comunque, è stata davvero massiccia; Vienna vuole fermare ogni discussione sull’ingresso nell’Ue e dello stesso avviso è Manfred Weber, il leader cristiano-sociale bavarese. Il ministro degli Esteri italiano, Angelino Alfano, non si è sbilanciato: anche lui si augura un raffreddamento delle tensioni interne. Ma una dittatura fredda, se così sarà, resta sempre una dittatura. E un eccesso di realpolitik non cambia la sostanza.
L’atteggiamento della Germania si spiega con la massiccia presenza di turchi, quello dell’Italia con un’apertura di credito che non è cambiata in modo sostanziale nei 13 anni in cui Erdogan ha consolidato il proprio potere abbandonando, con moto accelerato, le promesse iniziali. Era andato al potere nel 2003 prendendo un Paese di fatto in bancarotta. Aveva chiesto l’aiuto del Fondo monetario internazionale e dell’Unione europea per stroncare l’inflazione al 100%. Aveva preso provvedimenti fiscali di estremo rigore ottenendo un indubbio successo.
Sul piano politico, Erdogan era diventato un esempio luminoso per i neo-con americani dell’amministrazione Bush: è possibile sposare l’islam (anche quello politicizzato) con la democrazia, dicevano, è un punto di riferimento per gli sciiti dell’Iraq liberato da Saddam Hussein e dal potere sunnita, anche l’Egitto dovrebbe fare lo stesso lasciando che i Fratelli musulmani vadano al potere. Un’equazione che si è rivelata fallimentare su tutti i fronti.
La svolta di Erdogan è maturata soprattutto in coincidenza con la crisi economica internazionale del 2008-2010 che ha interrotto la crescita turca e ha messo in luce una debolezza profonda dell’Occidente e in particolare dell’Europa. L’Ue è diventata meno attrattiva. Mentre è covato nella base del partito islamista AK, soprattutto nei ceti popolari, nelle campagne, nelle periferie e nella piccola borghesia mercantile, un forte risentimento anti-occidentale. Il terrorismo curdo, le tensioni alla frontiera con l’Iraq (dove i curdi di fatto hanno un loro semi-stato) e la destabilizzazione della Siria hanno via via fatto il resto.
Il presidente turco, sempre più nelle vesti di un nuovo sultano, ha alzato la posta, usando l’onda di rifugiati siriani e ricattando l’Unione europea. Ha ottenuto cospicui aiuti finanziari (tre miliardi di euro, l’Italia sborsa 224 milioni) per tenerli relegati in campi profughi, ma non per questo ha allentato la sua morsa. Né è servito a evitare un giro di vite xenofobo in altri paesi dell’Europa centro-orientale come l’Ungheria. È stato un errore non aprire di più la porta alla Turchia prima che scattasse questa deriva autoritaria, ovvero a cavallo del nuovo secolo?
L’Italia è sempre stata favorevole ad accogliere i turchi nell’Unione. I nostri legami economici sono forti, grandi gruppi industriali italiani operano in Turchia. E ora il nuovo gasdotto Tap che parte dall’Azerbaijan e attraversa l’Anatolia, dovrebbe stringere un nuovo legame (sappiamo quanto la dipendenza energetica possa influenzare anche la politica, quella estera, non solo quella economica). Ma le cose stanno cambiando e non in meglio. Si ripropone così il dilemma tra princìpi e realtà. Rompere i legami con Ankara significa spingere il Paese nell’abisso di una dittatura senza ritorno, il che lo rende incompatibile anche con l’Alleanza atlantica. Far finta di niente sarebbe una prova di debolezza nel momento in cui, al contrario, è la Turchia a trovarsi in una posizione per molti versi sfavorevole.
L’economia va male, le tensioni con i curdi hanno raggiunto il culmine. Il presidente turco, esperto nel ricatto politico, potrebbe minacciare l’uscita dalla Nato, ma il suo esercito non è in grado di difendersi da solo. Più in generale, se si salda il fronte tra Putin e Assad, a Erdogan non resta che soggiacere alla potenza dell’antico nemico russo. Bel risultato per un uomo che ha chiesto il potere per mettere la Turchia al primo posto.
Dunque, non bisogna farsi troppo impressionare dalla propaganda: l’Ue e gli stessi Stati Uniti debbono tenere la corda ben tirata, perché Erdogan è l’ultimo al quale conviene strapparla. Attraverso un uso fermo e attento di pressioni politiche, economiche e militari, è ancora possibile mettere un argine alla pericolosa corsa verso un nuovo sultanato.