Senza l’inversione a 180 gradi della politica americana, probabilmente entro la fine di quest’anno la Siria poteva ritornare un paese in pace e guardare con speranza il futuro: Aleppo, nonostante i malumori occidentali, è stata liberata, molti gruppi ribelli si sono riconciliati con il governo e gran parte del paese nonostante la vita grama a causa delle sanzioni e della guerra è tornata sicura.
Però ora è tutto nuovamente azzerato: in pochi giorni Trump è passato dall’ipotizzare che Assad potesse rimanere al potere al definirlo un “animale”, un “diavolo” e “peggio di Hitler”. E’ la giustificazione che l’ingerenza americana sia conseguenza dell’immoralità di Assad, un sanguinario dittatore, un non-uomo, verso il suo popolo. Ma è una giustificazione debole.
Di dittature gli Usa ne hanno sostenute molte: in Indonesia, nelle Filippine, ad Haiti, in Corea del Sud, nello Zaire, in Cile (e si potrebbe continuare): per gli Usa il sistema autoritario, di per sé, non ha mai costituito un problema quando il dittatore si è prestato ad un’alleanza proficua ed è rimasto nella sfera di influenza occidentale. E’ in base a questa dottrina che in Yemen ai sauditi viene consentito di reprimere violentemente ogni tentativo di opposizione e viene concessa loro l’immunità nel continuare a bombardare indiscriminatamente la popolazione.
Inoltre, in un mondo non perfetto, non è trascurabile che la Siria, uno stato laico che salvaguarda le minoranze, abbia concesso dal 2014 il multipartitismo; mentre la casa Saud, una dittatura dinastica che diffonde il wahabismo in tutto il mondo, non concede nemmeno una costituzione ai propri cittadini. Quindi, se non è questo il problema per gli Stati Uniti, perché la Casa Bianca insiste nel voler destituire Assad ancor prima di libere elezioni? Perché non ci si focalizza invece sull’obiettivo del combattere seriamente i gruppi terroristi che compongono il 90 per cento delle forze presenti in Siria?
La vera ragione di questo rifiuto è ormai evidente: le forze “ribelli” sono guidate da sauditi, turchi e dagli stessi Stati Uniti. Ma soprattutto: se ora Washington lasciasse decidere ai siriani, la Siria non solo continuerebbe a rimanere nella sfera influenza dell’Iran e della Russia ma questo legame risulterebbe consolidato. La guerra ha rinsaldato gli antichi legami: agli occhi di Assad gli Stati Uniti sono stati sleali, sono totalmente screditati perché hanno distrutto il suo paese. E’ il punto cruciale: essere estromesso per Washington è intollerabile ed inaccettabile. Dietro la Siria poi verrebbe l’Egitto e poi chissà chi altro: tutto ciò minerebbe non solo la supremazia americana nell’area ma anche quella israeliana.
Per questo fa un po’ sorridere che sino proprio gli Stati Uniti che vorrebbero riprendere l’iniziativa per la pace. Insomma Washington ha fornito supporto per milioni di dollari ai “ribelli” siriani, compresi i terroristi di al Nusra e da cobelligeranti, ostili a prescindere al governo di Assad, hanno tollerato ogni sorta di sopruso compiuto dai jihadisti sul popolo siriano: come potrebbero essere equi con le giuste aspirazioni della popolazione senza girare le spalle ai propri alleati? Come potrebbero, essendo loro stessi gli ideatori di tutta questa tragica messinscena?
E poi non c’è stato mai nessun ripensamento. La vecchia agenda è ancora valida e non è stata mai accantonata: all’interno degli Stati Uniti ci sono think thank e gruppi di pressione che trascendono dal presidente eletto. Se è balenato per un attimo un miglioramento, una visione delle cose più attinente alla realtà, ora essa è svanita. Lo “stato profondo” ha ripreso in mano la situazione e Trump, facendo la faccia dura e accettando la metamorfosi, è stato legittimato come presidente.
Chi si volesse cimentare in un ulteriore approfondimento del piano in vigore per la Siria, può dare un’occhiata a due documenti: sembrano la trama di questi anni di guerra. Il primo è della Cia ed è stato redatto nel 1983; si chiama “Bringing Real Muscle to Bera against Syria“. Il secondo è un “memo” della Brookings Institution del 2012, “Saving Syria, Assessing Options for Regime Change“. Sono la prova di quello che vi ho detto. Le linee guida di questo “pensiero” sono state efficacemente descritte dal premio Pulitzer Seymour M. Hersh sul New Yorker nell’articolo “The Redirection” del 2007.
Tramite queste evidenze, se seguiamo un filo conduttore logico ci accorgiamo che in sostanza, vera o falsa che sia, la tragedia di Idlib è correntemente usata come “cavallo di Troia” per riattivare i piani di regime change preparati molti anni prima che la rivolta iniziasse. Ciò vuol dire che se non fosse stata utile allo scopo, si sarebbe trovata qualcos’altro come pretesto.
Un ulteriore segno dell’irrigidimento della politica americana è il comportamento del Segretario di Stato Usa Rex Tillerson nella sua visita a Mosca che ha avuto al centro la crisi siriana: il rappresentante americano ha portato solo ultimatum e non proposte. Tillerson si è persino innervosito dell’insistenza del ministro degli Esteri russo Lavrov che gli proponeva digressioni storiche per fargli presente il rischio incombente di ricadere negli stessi errori fatti dal suo paese in Iraq ed in Libia. L’incontro è stato commentato dal Cremlino come il punto più basso delle relazioni russo-americane: l’unica opzione disponibile offerta dagli americani non è stata la ricerca di un punto di incontro nella verità, ma da che parte stare. E nell’insegna della ritrovata unità con i leader europei anche al G7 di Lucca il messaggio è stato lo stesso: “la Russia deve scegliere tra allinearsi agli Stati Uniti e ai Paesi che la pensano allo stesso modo oppure ad Assad, all’Iran e a Hezbollah”.
E l’attacco chimico di Idlib? L’attacco chimico del 4 aprile ad Idlib, fosse avvenuto con le dinamiche sostenute dagli Usa, sarebbe comunque un pretesto. Un pretesto per correre spediti altrove. Dove? Verso un coinvolgimento più diretto nel conflitto: se veramente interessasse la gente ed i bambini, e la pietà cristiana tanto richiamata fosse al primo posto, la guerra non sarebbe mai avvenuta.
Tutti sappiamo che la verità non dipende dal numero di titoli di giornali che dicono la stessa cosa. Perciò è utile chiarire che, allo stato attuale, le accuse formulate contro Assad per l’attacco chimico si basano solo sulla testimonianza oculare di Shajul Islam, un medico che era sul posto e che ha descritto gli effetti delle esplosioni con alcuni video realizzati con il suo telefonino. Tuttavia il dr. Shajul Islam, preso come testimone chiave della tragedia di Idlib, è ampiamente screditato. Egli fa parte del gruppo jihadista che ha rapito il giornalista John Cantlie nel mese di 19 luglio 2012 nei pressi della cittadina di Al Bab, situata vicino al confine turco. La sua pessima reputazione gli ha comportato la radiazione dall’ordine dei medici ed un mandato di arresto.
Oltre ai video (su cui sono stati tutti cancellati i metadati su luogo ed epoca di realizzazione) gli Stati Uniti hanno pubblicato i risultati di una inchiesta interna della Cia che proverebbe il coinvolgimento del governo siriano con l’attacco chimico di Idlib, ma il dossier, oltre che essere autoreferenziale perché fatto da una parte in causa, non riporta le prove. Molto più dettagliata è invece l’inchiesta dell’associazione di ricerca non governativa “Medici svedesi per i Diritti Umani” (Swedhr) che non solo scagionano il governo siriano ma fornisce particolari agghiaccianti: i bambini usati nel video sarebbero stati uccisi per realizzarlo. Insomma il dubbio è grande e nessuna politica assertiva è sufficientemente supportata da elementi certi.
E’ evidente che senza strumentali decisioni ciò che si sarebbe dovuto fare è attendere i risultati della missione dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opcw). Essa stabilirà tra 3-4 settimane se i gas sono stati utilizzati. Poi le conclusioni passeranno ad un’indagine delle Nazioni Unite-Opcw congiunta che dovrà individuare le responsabilità.
Questo è quanto doveva accadere sin dall’inizio senza isterismi ma guardando gli eventi in corso la domanda è: nel frattempo quanti missili tomahawk saranno ancora lanciati contro “obiettivi” in territorio siriano?