Persino il primo turno delle elezioni presidenziali francesi offre lo scenario di un Paese in profonda crisi politica e sociale. Si pensava che l’appuntamento del 23 aprile fosse solo una selezione quasi naturale tra la reazione montante di questi anni di Marine Le Pen, con il suo Front National, e il futuro vincente del 7 maggio, il candidato dello spirito repubblicano che ha sempre caratterizzato la Quinta repubblica. 



Invece, anche se i sondaggi vanno presi con le pinze visti i risultati di questi ultimi mesi, la sensazione è che al primo turno ci sarà una rissa o una riffa tra quattro candidati, tutti raggruppati in un “fazzoletto” di consensi, che sono la chiara espressione di un grande Paese diviso ormai in quattro poli, con sintomi di progressiva disgregazione.



Marine Le Pen, la capofila continentale di quella che oggi viene definita l’ala populista, antieuropeista e intransigente verso l’immigrazione, è attestata intorno al 21 o 22 per cento, in calo rispetto alle rilevazione di qualche mese fa. Sullo stesso piano, quasi a pari merito o poco più avanti, c’è il candidato pescato dal mare dell’europeismo acritico e ultrà del neoliberismo, nonostante sia stato un ministro del governo socialista, il radicale Emmanuel  Macron, che si è inventato un movimento “En marche”. 

Poco più sotto, spuntano le quotazioni del gollista classico, l’uomo che doveva rappresentare la “salvezza” contro il Front National e che invece è stato investito da una serie di problemi giudiziari di carattere familiar-finanziario. E’ François Fillon, rappresentante della destra antifascista francese, la destra che discende direttamente dal generale De Gaulle, il fondatore della Quinta repubblica dopo un ritiro e un un ritorno clamoroso. Fillon è stato “massacrato” dalle inchiesta giudiziarie, ma regge intorno al 19 per cento. 



Ancora poco più sotto c’è al 18 per cento Jean-Luc Mélenchon, rappresentante del Fronte di sinistra da lui fondato, un radicale della “gauche”, marginale fino a qualche tempo fa, ora rappresentante di più del doppio dell’elettorato stimato a favore di Benoît Hamon (l’8 per cento), il candidato ufficiale del Partito socialista francese, quello del presidente della Repubblica François Hollande e del premier Manuel Valls, il capo del governo di Parigi. 

Per valutare che cosa hanno combinato in questi anni i socialisti francesi, gli eredi di François Mitterrand, basta fare queste tre considerazioni: Hollande ha una popolarità che non arriva al 5 per cento; Valls è stato battuto da Hamon nelle primarie e Benoît Hamon è l’ultimo in graduatoria dei candidati con una percentuale ininfluente, che lo escluderà senz’altro dal ballottaggio del 7 maggio. Questo è forse l’unico risultato certo, perché i sondaggi registrano modifiche, in su o in giù, solo per i quattro, settimana dopo settimana.

Questa è in sintesi la firma del disastro dell’impettito, incompetente e supponente François Hollande, forse il becchino del socialismo transalpino, con i suoi scodinzolamenti dietro alla “boche” Angela Merkel e ai suoi consiglieri dell’austerità, che anzi inaugurò il francese Jean Claude Trichet, presidente della Bce, tra i frenetici applausi degli eurocrati di Bruxelles e di quel “genio al contrario” dell’economia che è il tedesco Wolfgang Schäuble.

E’ evidente che al disastro di Hollande si aggiunge la prosopopea da rotocalco di “Sarkò” cioè di Sarkozy, che la sua bella e celebre moglie “Carlà” non ha salvato da una conduzione deficitaria non solo in politica estera, ma anche interna della Francia.

Ora, l’appuntamento è diventato cruciale, per la Francia e anche per l’Europa. E’ come se fosse la prima tappa delle prove decisive che quest’anno, in un contesto internazionale  complicatissimo deve affrontare l’Unione europea.

E’ evidente che il risultato francese influenzerà anche il seguito elettorale e non a caso la leader inglese Theresa May ha anticipato le elezioni britanniche all’8 giugno, un mese giusto dopo il risultato finale francese, magari per dare un consenso ancora più massiccio alla Brexit.

Ma intanto proviamo ad analizzare la dispersione che si presenta in Francia e quello che nasconde la divisione tra quattro “poli” che sembrano riportare il paese all’instabile Quarta repubblica, che fu liquidata da De Gaulle, in parte anche dalla sua guardia pretoriana come il generale Jacques Massu, che fu certamente l’uomo della tragica “battaglia di Algeri”, ma anche il garante della Repubblica nei mesi convulsi del ’68, a fianco di De Gaulle e di Georges Pompidou.

Ora tutti questi personaggi non ci sono più, mentre la Repubblica viene squassate dalle ventate populiste di Marine Le Pen e dai tentativi di personaggi di secondo piano come Macron, Fillon e persino Mélenchon.

Non solo non ci sono più i De Gaulle e i Pompidou, ma neppure uomini come Jacques Chirac, capaci di interpretare profondamente lo spirito laico e repubblicano della Francia. 

Guardiamo l’attuale Francia in controluce. Diffusa incertezza e paura (dovuta al terrorismo) affliggono il Paese da Nord a Sud. Qui la banlieue è sinonimo di incertezza, di terrore e anche di un fallimento: quello di un’integrazione che non è riuscita. L’ultima grande potenza coloniale, l’ultima a ritirarsi almeno, dai territori d’Oltremare, la Francia, uscì dalla trappola della cosiddetta, allora, Indocina con la sconfitta di Dien Bien Phu nel 1956 e si preparava a fare i conti con il dramma algerino e l’Africa del Sahel. 

Sembrava che non si integrassero i “pieds noirs” (i bianchi rientrati dalle colonie) nella nuova Francia, invece è esplosa la rivolta degli immigrati, di seconda e terza generazione, in periferie-ghetto, degradate, dove ci sono tradizioni e povertà che si fronteggiano. Marine Le Pen, spogliato il Front National dall’eredità di Vichy, sfrutta il malcontento della Francia profonda e, arrivando addirittura a una sorta di “Vandea alla rovescia” contro Papa Francesco, invita ad aprire le porte. Marine Le Pen è pure favorita nella sua ascesa dall’ottusa politica dell’Ue, che non solo toglie sovranità, ma condanna il continente alla deflazione che salva solo la Germania.

Vincesse Marine Le Pen sarebbe la fine dell’Europa, ma anche se la figlia di Jean Marie perdesse il ballottaggio con una percentuale alta, sancirebbe la frattura profonda della Francia e un pericolo costante per l’Europa. Inutile farsi illusioni.

Si spera in Emmanul Macron, ma il giovane leader appare al contempo determinato e fragile. Può essere un’incognita interessante o la nuova delusione di un’Europa che non seleziona più grandi politici. François Fillon, con tutto il rispetto, sembra il sopravvissuto di una destra democratica, con una grande tradizione che sembra arrivata al capolinea, mentre Jean-Luc Mélanchon, antieuropeista da sinistra, è l’esponente di un’ultima barricata che ha perso troppi appuntamenti in questi anni.

Inutile nasconderlo. Saranno giornate da brivido, contrassegnate da un’incertezza profonda, che solo il rialzo degli spread riporta nell’alveo di una razionalità irreale. Come se i popoli non contassero più e gli indicatori finanziari fossero la nuova bussola di una società impazzita.