Sta diventando non infrequente che chi perde una elezione chieda di ricontare i voti per presunti brogli: è accaduto in occasione della vittoria di Donald Trump e sta avvenendo per il recente referendum sulla revisione della Costituzione turca. Lo vediamo in queste ore, in cui tutta l’attenzione è — giustamente — concentrata sulla vicenda di Gabriele Del Grande. Nel caso turco i dubbi sembrano essere consistenti, peraltro con esigue probabilità che vengano accolte le richieste di revisione dei conteggi avanzate dai sostenitori del “no” e da organizzazioni internazionali. A parte la questione dei brogli, rimane il fatto che non sembra molto democratico indire un referendum costituzionale in un Paese in stato di emergenza, come è tuttora la Turchia dopo il fallito colpo di Stato dello scorso luglio. Le epurazioni in questi mesi sono state molto estese e hanno colpito non solo i militari accusati del golpe, ma anche magistratura, accademici, giornalisti e politici dell’opposizione. I sostenitori del No alla trasformazione della Turchia da repubblica parlamentare a presidenziale con poteri molto ampi al presidente, cioè a Erdogan, sono stati etichettati come “traditori della nazione”. Anche la copertura mediatica è stata praticamente monopolizzata a favore del Sì e, inoltre, la Commissione elettorale ha deciso prima della chiusura dei seggi di ammettere al conteggio anche le schede non convalidate con timbro, che secondo la legge vigente avrebbero dovuto essere scartate.



Malgrado tutto ciò, il referendum è passato con il 51,4 per cento dei votanti (l’83 per cento degli aventi diritto), una percentuale risicata per un cambiamento costituzionale di tale portata e che rappresenta una sostanziale sconfitta per Erdogan. Tuttavia, sia il primo ministro che lo stesso Erdogan si sono affrettati a “festeggiare” la vittoria del Sì ancor prima della proclamazione ufficiale.



Questo bisogno di essere legittimato da un voto popolare appare strano in un personaggio come Erdogan che non ha mai esitato ad usare il potere in modo autocratico. La repressione dopo il tentato golpe è andata ben oltre una giustificabile reazione, ma è bene ricordare quanto successo nel 2013 con le proteste popolari iniziate al Gezi Park, represse violentemente dal governo di Erdogan, causando diversi morti e parecchi feriti. Le condanne da parte di Onu, Ue e altri enti internazionali non ebbero alcun effetto, così come l’attuale denuncia di brogli da parte dell’Ocse sarà molto probabilmente usata da Erdogan per denunciare l’indebita intromissione di quella “alleanza di crociati” che secondo lui è l’Europa.



Il motto della campagna referendaria di Erdogan era: “Uno Stato, una nazione, una bandiera”; i risultati del referendum hanno mostrato un Paese drammaticamente diviso. Nelle grandi città ha prevalso il No: più del 51 per cento ad Ankara e a Istanbul, di cui Erdogan è stato sindaco, quasi il 69 per cento a Smirne, il 60 per cento ad Antalya. Nelle regioni abitate dalla minoranza curda, nonostante la repressione in corso, il voto per il No è stato tra il 70 per cento e l’85 per cento. Il Sì ha invece vinto nella rurale Anatolia centrale e nelle zone conservatrici lungo il Mar Nero. Il voto ha anche diviso il partito dello stesso Erdogan e dei suoi alleati ultranazionalisti.

Non sarà facile neppure per l’autoritario Erdogan gestire questa situazione, ma non è detto che ciò lo porti a un atteggiamento più “morbido” nella politica interna e alla ricerca di un maggior sostegno a livello internazionale. Le sue prime dichiarazioni sono state un invito all’unità nazionale, ma per intanto ha prolungato per altri tre mesi lo stato di emergenza.

L’Unione Europea ha minacciato di chiudere definitivamente le trattative per l’associazione della Turchia, il che ha del grottesco. Queste trattative sono già di fatto fallite e lo stesso Erdogan ha già dato il benservito all’Ue, che tiene peraltro sotto costante ricatto con la minaccia della ripresa di flussi massicci di migranti. Cui si aggiunge il dato preoccupante del voto preponderante per il Sì espresso dai turchi residenti nei Paesi europei, in Germania con il 63 per cento e in Olanda con il 70 per cento, possibile “quinta colonna” utilizzabile dall’uomo forte di Ankara. Resta poi aperta, dopo più di quarant’anni, la questione di Cipro e dell’occupazione manu militari di un terzo dell’isola da parte della Turchia.

In contrasto con la posizione europea, Donald Trump si è precipitato a congratularsi con Erdogan per la vittoria al referendum. Tralasciando i commenti di chi vedrebbe in questo la sintonia tra due “uomini forti”, o che si credono tali, si può ipotizzare un tentativo di Trump di allontanare Erdogan dalla stretta russa. Una mossa che parrebbe rispondere più a esigenze interne che a un reale tentativo di influenzare la politica estera turca, che continuerà a giocare su più tavoli.