In queste ultime settimane l’Italia è sembrata molto attiva sui tavoli diplomatici che contano. Prima il presidente della Repubblica Mattarella si è recato a Mosca a incontrare Putin e poi il premier Gentiloni è volato a Washington da Donald Trump. Infine, quasi a suggello di questa attività, ieri a Roma il presidente della Camera dei rappresentanti di Tobruk, Aghila Saleh, ha incontrato il presidente dell’Alto Consiglio di Stato di Tripoli, Abdulrahman Swelhi. E’ il primo incontro di un rappresentante della Tripolitania con uno della Cirenaica.



Inutile dire che la questione libica è stata centrale in entrambi gli appuntamenti, quello del capo dello Stato e quello del presidente del Consiglio, e per questo potremmo pensare di partire da qui per tentare di ottenere maggiore peso a livello internazionale evitando, per una volta, di essere fagocitati dalle altre potenze europee. Cerchiamo di capire come. 



Al momento, in Libia, siamo i soli a sostenere il governo di accordo nazionale di Serraj. La nostra ambasciata a Tripoli è stata riaperta tra mille polemiche e lì, vicino al lungomare della capitale dilaniata da continui scontri, pare quasi una cattedrale nel deserto. Eppure ci siamo. Il ministro Minniti si è dato un gran da fare per dare vita a una politica di risposta alla crisi migratoria che, finalmente qualcuno lo ha capito, ci interessa da vicino e per cui dobbiamo rimboccarci le maniche e fare da soli, al massimo elemosinando qualche obolo alle riluttanti istituzioni europee. 

Sia chiaro, non si intende dire che la strategia italiana sia ineccepibile, anzi, presenta una serie di criticità che rischiano di minarne fin da ora le fondamenta. Tuttavia, qualcosa andava fatto, seppure con un “pelino di ritardo”. Dalle coste tripoline parte l’80 per cento dei migranti che arrivano in Italia. Il nostro Paese è il maggior importatore di petrolio e l’unico destinatario del gas libico attraverso il Greenstream. Il terminal Eni di Mellitah è a tutt’oggi uno dei pochi ancora funzionanti in Libia e sono italiane molte delle attività estrattive offshore ancora realizzate a largo delle coste tripoline. Cos’altro potevamo fare? 



Forse qualcosa in più. Non resta che capire in che modo. Mosca, storico alleato di Haftar, sembra disposta ad assurgere al ruolo di mediatore nella crisi libica agganciando anche Tripoli. La visita di Serraj in Russia del 2 marzo scorso fa presupporre che il Cremlino stia cercando di dialogare direttamente con il governo unitario, saltando inutili intermediari che, in quanto tali, potrebbero chiedere delle laute provvigioni. Per non restare esclusi dalla partita dobbiamo valorizzare il nostro ruolo nel Paese. L’Italia sta coerentemente lavorando con gli attori tripolini da tanto tempo, grazie alla recente attività politica del governo ma anche — e soprattutto — alla diplomazia energetica dell’Eni che è stata capace di schivare l’interventismo delle fameliche compagnie internazionali nel post-Gheddafi e ricominciare da capo, dialogando con i vari gruppi di potere presenti nel territorio. Inoltre, con la nostra ambasciata rappresentiamo l’unico punto di contatto occidentale a Tripoli e siamo “in confidenza” con i misuratini, uno dei più importanti e numerosi gruppi (armati) del Paese che stiamo supportando con la missione Ippocrate. Ce n’è abbastanza per bussare alla porta del Cremlino, porci come interlocutori indispensabili per dialogare con Tripoli e tentare di mediare una soluzione politica per la Libia, faccia a faccia, alla pari. 

E l’America che ruolo potrebbe svolgere? Trump ha chiaramente fatto capire a Gentiloni che non ha alcuna intenzione di impantanarsi in Libia e, a meno che non decida di ripensarci nelle prossime 24 ore — cosa che vista l’imprevedibilità del personaggio non è da escludere a priori — potrebbe lasciarci un certo margine di manovra a Tripoli.

In un quadro così delineato, una qualche collaborazione con Putin non potrà avvenire a livello europeo, visto che fin dall’inizio della crisi libica quasi tutti i nostri “alleati”, Francia in primis, hanno chiaramente anteposto la realpolitik dell’interesse nazionale alla volontà di agire in maniera sinergica. L’Italia ha una sola chance: sfruttare il suo capitale di fiducia con alcuni attori tripolini per mediare un accordo intra-libico con Mosca. D’altra parte l’Eni fa affari con la sua omologa russa Rosneft che, tanto quanto il Cane a sei zampe, va d’amore e d’accordo con la Noc, la compagnia petrolifera nazionale libica. Il discorso potrebbe iniziare da qui. 

C’è solo un dubbio. La storia recente — e soprattutto l’intervento internazionale in Libia del 2011 — ci ha dimostrato che l’Italia pur avendo un gran talento in materia diplomatica, spesso non riesce a finalizzare il lavoro svolto, regalando la partita ai competitors europei. Detta in altri termini, siamo bravissimi a schivare gli avversari fino alla metà campo ma poi non riusciamo a tirare in porta e a segnare il gol della vittoria. Non resta che sperare che le vicende politiche siano diverse da quelle calcistiche e, dunque, di non perdere ai rigori con Francia e Germania.