Non era affatto scontato che Emmanuel Macron risultasse il più votato al primo turno delle presidenziali francesi: così come non è ancora certo — anche se è probabile — che entri all’Eliseo dopo il secondo turno in calendario il 7 maggio.
Viene dalla tecnocrazia, Macron — e le Grandi Scuole resistono in credibilità a Parigi — ma anche dalla finanza: un mix identitario poco popolare nell’Europa del 2017. E’ stato ministro nel quinquennio di François Hollande, prima incolore, poi fallimentare. Ha militato a lungo nel partito socialista, ridotto oggi in condizioni di impresentabilità e inservibilità politica in Francia (il candidato ufficiale Benoit Hamon ha racimolato nelle stime il 6 per cento). Macron ha fondato appena un anno fa un partito nuovo di zecca — En Marche! — cercando spazio al centro, fra la vasta diaspora della gauche e lo zoccolo duro dei gollisti-repubblicani, assediato a destra da Marine Le Pen.
Come abbia fatto Macron a spuntarla — con prevedibile sollievo dei mercati finanziari e di molte cancellerie internazionali — offre certamente più interrogativi che riflessioni compiute: non da ultimo in Italia. Il primo è certamente che la Francia — diversamente da Gran Bretagna e Stati Uniti — non ha strappato la tela della “governabilità costituzionale”: settantadue ore dopo l’ultimo assassinio di un poliziotto in centro a Parigi, con forti sospetti di terrorismo islamico, non ha concesso al Front national quell’extra-credito necessario a espugnare l’Eliseo. E’ quanto è accaduto — con qualche incertezza in più — in Olanda ed è quanto ragionevolmente accadrà in settembre in Germania, dove l’ipotesi che gli xenofobi di AfD si insinuino fra Cdu-Csu e Spd sembra solo teorica.
Al club dei ri-fondatori dell’Europa (dai Patti di Roma del 1957 alla Dichiarazione di Roma del 2017, passando per Maaastricht 1992) sembra mancare ormai solo solo l’Italia: per la quale, forse, il drive delle elezioni francesi e tedesche potrebbe accelerare i tempi del voto. Ma nonostante il quasi-presidente francese sia stato in una certa fase vicino a Matteo Renzi, il suo profilo emerge oggi in tutta la sua diversità. Macron non era premier e si è staccato da un’esperienza di governo dimostratasi troppo tradizionalmente socialista. Si è messo politicamente in proprio e si è messo subito alla prova nel voto interno di massimo impegno. Conosce la gestione della cosa pubblica e ora chiede una fiducia vera su una sfida realmente nuova: dare alla Francia un governo social-liberale (in fondo meno statalista sia rispetto alla sinistra sia rispetto al centro-destra), riformista sia verso l’Europa di Bruxelles sia verso quella di Berlino, ma senza indulgenze tattiche verso alcun populismo. E con prevedibile chiarezza di idee sia verso l’America di Trump che verso la Russia di Putin. E hanno certamente votato per Macron i francesi stanchi di reazioni puramente retoriche agli attentati, ma non convinti dalla pura e semplice regressione nazionalistica proposta alla fine anche da Fillon.
Sicuramente, “fatto il presidente” (e mancano ancora due lunghe settimane), ci sarà una Francia da rifare: prevedibilmente subito alle elezioni politiche e poi soprattutto negli assestamenti di coalizione cui neppure Parigi potrà ormai sottrarsi. Rispetto alla situazione italiana — soprattutto quella che si profila dopo un voto proporzionalista — Macron può contare su un centrodestra strutturato, diverso dal declinante partito personale dell’80enne Berlusconi; e su una sinistra antagonista, protestataria, “insoumise” come quella che ha votato Jean-Luc Mélenchon, alla fine molto più evanescente e velleitaria di M5s in Italia.
Sono settimane che un osservatore attento come Stefano Folli si augura la vittoria finale di Macron a Parigi, come momento di svolta per un’intera Europa chiamata a ricucire il proprio tessuto politico-istituzionale, invertendo il ciclo di avanzata dei populismi su scala globale. E fra due settimane, se i pronostici saranno confermati, potrebbero effettivamente essere al tramonto sia le ambizioni di una Le Pen (e dei suoi molti fan in tutt’Europa), sia il ciclo europeo di Angela Merkel. Quello che seguirà è oggi poco predicibile. Ma l’Italia non potrà risolvere i suoi problemi solo ospitando il G7 di Taormina.