“Amici, non questi accenti!”. Era il 1926 e così Hermann Hesse cominciava un celebre e profetico articolo in cui paventava la guerra a venire, così inscritta nelle condizioni vendicative e vessatorie che avevano sancito quella appena conclusa. Condizioni che umiliavano pesantemente gli sconfitti, che assimilavano danni e debiti di guerra a cambiali cravattare e insostenibili; condizioni, soprattutto, che continuavano a non chiedersi perché certi politici e certi avventurieri dell’intelletto avevano potuto agire in quel modo e — a soli otto anni dall’armistizio — ricominciare a soffiare nella stessa direzione. Nessuno o troppi pochi, insomma, si chiedevano che cosa accadesse nel cuore e nelle viscere di quelle masse informi e nascenti che fino a pochi decenni prima erano stati popoli, comunità, luoghi umani.



Fatta la tara alle analogie troppo dirette, il risultato del primo turno delle presidenziali francesi mette di fronte ad alcuni interrogativi di natura molto simile. L’Europa è in fiamme, il Pacifico è arrabbiato e anche noi non stiamo troppo bene. In tutto questo bailamme, la Francia manda per la seconda volta in quindici anni un Le Pen al ballottaggio e questo fatto forse ci dovrebbe far alzare un po’ il livello del discorso dallo scontro tra l’etica al caviale della Rive Gauche parigina (e di tutte le Rive Gauche delle nostre presunte élite intellettuali) e l’etica alla Lando Buzzanca dei Salvini di tutto il mondo. Perché le percentuali sono percentuali, ma dentro le percentuali ci sono persone con speranze, paure, aspirazioni, convinzioni. Spesso confuse e volubili, forse; sicuramente sempre meno “accolte” dalle classi dirigenti. 



La fortuna e il caso vogliono che il 22 aprile 2002, cioè il lunedì successivo a quello che ancor oggi in Francia è ricordato come “il” 21 aprile, chi scrive sbarcasse a Nizza in cerca di fortuna. Non avendo molti soldi né molte grandi speranze in tasca, mi misi subito a girare per il Vieux Nice, il quartiere storico centrale, sperando di ottenere un posto da birraio o cameriere. La città era come paralizzata, atterrita dal fatto che il gran dimonio Jean-Marie Le Pen avesse estromesso Jospin dal ballottaggio. Non una voce che si levasse in favore di quanto avvenuto, o che almeno non si levasse del tutto sdegnata da quanto avvenuto. Plausibile, si dirà. Se non fosse per il fatto che a Nizza, Caron Dimonio Le Pen aveva preso il 27 per cento dei voti. Cioè un abitante su quattro lo aveva votato e io, battendo palmo a palmo il quartiere dei locali, non trovavo nessuno che avesse il coraggio di dire “sì, anch’io l’ho fatto, perché non so più dove sbattere la testa”. La censura sociale aveva messo all’angolo — e continuerà sempre più negli anni a venire — le istanze di chi si era deciso o rassegnato a votare Le Pen perché anziché negarle o bistrattarle, il vecchio razzista a quelle istanze dava accoglienza. Quella stessa accoglienza che la Gauche Caviar chiede sempre in grancassa senza offrire soluzioni reali e praticabili per farlo, se non il disprezzo della natura umana e dei suoi desideri più semplici.



Nei mesi successivi mi accorsi di che cosa fosse Nizza. Me ne accorsi quando, in coda nelle agenzie interinali per qualche lavoro a giornata, non trovavo accanto a me i miei coetanei di origine maghrebina, ma i loro genitori: gente nobile e dignitosa che come Mohamed Sceab non aveva saputo diventare francese, né sapeva più essere maghrebina. Ma che con grande dignità accettava e desiderava quella questua lavorativa, perché accettava e desiderava quell’integrazione che gli era stata fallacemente promessa.

I loro figli, quelli che come me avevano poco più di vent’anni, li trovavo sulle spiagge della Promenade des Anglais a spacciare o a bighellonare (a uno di loro vinsi 5 euro scommettendo sul 5 maggio dell’Inter e sulla rimonta juventina).

Nizza in quei giorni fu attraversata da cortei democratici di ogni ordine e grado e al ballottaggio il demonio fu spazzato via da un 82 per cento pro-Chirac su scala nazionale (in città però la sua percentuale si alzò fino al 30 per cento). Eppure, quindici anni dopo, siamo ancora qui, a dover combattere fra simulacri di posizioni e simulacri di programmi perché nessuno ha preso sul serio la questione, lasciandola a covare sottocenere per tutto questo tempo. 

Macron vincerà, la democrazia sarà salva ancora una volta e ancora una volta le speranze e le paure della gente quotidiana, di quella che nasce vive e muore senza grandi ideali palingenetici ma desiderando di vivere e amare i propri cari, saranno sotterrate. Ma continueranno a covare e c’è solo da sperare di non essere troppo vicini alla miccia quando il vulcano scoppierà come una rissa in periferia, per un fortuito sguardo di sguincio.

Siamo sul baratro. Ascoltiamoci.