Emmanuel Macron, fresco vincitore al primo turno delle presidenziali francesi, ieri pomeriggio deve aver fatto gli scongiuri, nonostante la sua formazione cartesiana imparata all’École nationale d’administration. Sono infatti arrivati due catastrofici endorsement a Macron: quello del presidente della Repubblica, François Hollande, che ormai è considerato il becchino del grande partito che governò la Francia con Mitterrand; e quello del “croupier” fiscale lussemburghese, Jean-Claude Junker, che tra una seduta e, a quanto si dice, una bevuta si addormenta sempre più spesso con incredibile spontaneità persino nelle riunioni della Commissione europea di cui è presidente dal novembre del 2014.
Il giovane Macron deve aver fatto buon viso a cattivo gioco di fronte agli auguri del “grande perdente” e a quelli dell’uomo dei “bosches”, il nome che i francesi danno ai tedeschi, che si può tradurre in italiano con “crucchi”.
A parte la circostanza di un establishment francese ed europeo che tira un respiro di sollievo e sale subito sul vagone del vincitore, con le Borse che festeggiano, occorre fare alcune considerazioni su questo primo turno, sul ballottaggio del 7 maggio e sul possibile scenario che si apre in Francia e in Europa con la grande frammentazione politica e la scomparsa dei grandi partiti tradizionali.
Emmanuel Macron è indubbiamente il favorito ed è uno dei segnali più significativi di una controtendenza, di una risposta a quella che viene sbrigativamente e schematicamente chiamata l’ondata del populismi anti-sistema, anti-politica e anti-Europa.
Il segnale più significativo è per il peso che ha la Francia in Europa e nel mondo. La tenuta in Austria, per un punto percentuale, non ha impressionato nessuno e la faticosa tenuta olandese (ma anche in quel caso sono spariti i socialisti, i laburisti olandesi dell’altro “bosche” ad honorem Jeroen Dijsselbloem) ha permesso di alzare per adesso solo una diga, chissà quanto solida.
Ma è in Francia che si gioca la prima “grande partita” tra europeismo e anti-europeismo. Macron ha giocato bene le sue carte, sfilandosi al momento giusto dal ministero dell’Economia del governo socialista in una Francia allo sbando e uscendo anche dal partito socialista per inventarsi il movimento “En marche” e dichiararsi “né di destra né di sinistra”. Macron è forse un enfant prodige, affidabile ma fragile, e forse fa parte di un gioco complesso cui ha contribuito anche l’establishment francese che non regge più, pur avendo alle spalle una grande tradizione di alta borghesia patriottica e repubblicana, che non è paragonabile alla pattuglia dei nostri “capitani di sventura”.
Se Hollande non si è presentato è solo perché ha compreso benissimo che sarebbe stato il primo inquilino dell’Eliseo che si fermava al 6 per cento dei suffragi. Differente la posizione di François Fillon, che, nonostante i guai giudiziari (creati da chi?), ha tenuto ancora alta la bandiera gollista, piazzandosi a una quota ragguardevole (19,7 per cento) e tenendo in vita un partito di antica destra democratica.
Fillon ha già dichiarato che voterà Macron, anche se pochi giorni fa lo aveva definito “un traditore”. Ma non è escluso che in un eventuale governo, che sarà senz’altro di coalizione o di coabitazione, come lo chiamano i francesi, Fillon possa diventare utilissimo e, nonostante i suoi dissidenti interni, possa anche trattare (o aver già trattato) la dimora di Palais Matignon, la residenza del primo ministro francese. Sarebbe un colpo di scena clamoroso, ma in Francia si fanno i conti con precisione, con poco spirito moralistico, guardando soprattutto al realismo politico.
Tutto questo si inquadra in una possibile e anche probabile vittoria del favorito Macron, che a questo punto otterrebbe anche gli applausi di Manuel Valls e ricreerebbe il famoso “Rassemblement” repubblicano che nel 2002, con Jacques Chirac, umiliò, con oltre l’80 per cento, il padre di Marine, Jean-Marie Le Pen.
Ma ora la partita è più difficile e aggrovigliata. Non c’è dubbio, innanzitutto, che la quinta repubblica sta boccheggiando ed è quasi in agonia come sistema funzionante. Un presidente all’Eliseo, al momento ancora senza partito seppure liberaldemocratico di vocazione, con una maggioranza composita, che deve fare i conti almeno con la destra gollista, non può avere un grande futuro e può essere figlio solo di una situazione di emergenza.
Poi c’è quello che emerge dalle elezioni. Se Macron assomma i suoi voti a quelli di Fillon e del socialista Hamon non raggiunge, anche se di poco, il 50 per cento. Ora, i sondaggi danno Macron vincitore con il 63 per cento, ma lui deve fare i conti con una parte della base di Fillon, che non pare convinta della scelta di votare il giovane “enarca”. Secondo Le Figaro, il 30 per cento dei gollisti sceglierà di non andare a votare oppure di scegliere Marine Le Pen.
Poi c’è l’incognita dell’elettorato di sinistra di Jean Luc Mélenchon, l’unico che riesce a contrastare la Le Pen nelle zone diventate povere della Francia e tra gli operai furibondi contro la globalizzazione e l’Europa. Marine Le Pen sfiora il 40 per cento tra la “force ouvrière”, mentre Mélenchon, nonostante il suo passato trozkista, che in Francia ha sempre avuto una grande tradizione, in quel bacino elettorale sfiora il 25 per cento.
In sintesi, si può riassumere nell’ordine questo schema con il quale Macron deve fare i conti: quinta repubblica in grande affanno; voto dell’establishment minoritario; antieuropeismo marcato e in alcune zone dilagante; la Francia profonda che si oppone alle città, soprattutto alla sua “testa”, la grande Parigi. Quattro voti in uno sono usciti dal 23 aprile francese.
Qui cominciano le carte che può giocare la sfavorita — ma ancora in corsa — Marine Le Pen. Nel primo discorso dopo essere arrivata al ballottaggio, Marine deve aver dato una “pugnalata” al padre, citando per la prima volta nella sua carriera politica il De Gaulle patriottico di Casablanca e probabilmente, nel corso della campagna elettorale, potrebbe citare ancora il grande soldato, l’eroe antinazista che da Radio Londra invitò la Francia a combattere contro il nazismo, mentre persino i comunisti di Thorez tentennavano per via del patto Molotov-Ribbentrop e la Francia, sempre aperta al mondo dei rifugiati politici, creava quella che Arthur Koestler chiamò “La schiuma della terra”.
Il ricordo di De Gaulle da parte di Marine Le Pen è certamente strumentale, ma nel dibattito nazionalista che c’è in questi tempi può avere un suo appeal e dimostra intelligenza politica.
Il generale proprio per il suo spirito nazionale non era sopportato da Churchill ed era detestato addirittura dal presidente americano Roosevelt. Nel dopoguerra si appellava spesso a un’Europa “Dall’Atlantico agli Urali”, ma poi per un periodo portò la Francia fuori dalla Nato.
In tempi di retorica europeista, questo si dimentica facilmente soprattutto da parte di chi ha creato una sorta di anti-europeismo di massa, come la signora Angela Merkel e i tedeschi, che hanno ridotto il sogno europeo a un traffico valutario e finanziario, come aveva compreso il grande e compianto cancelliere socialdemocratico Helmut Schimdt: la signora della Svevia fa gli interessi della Germania, ma non capisce nulla dell’Europa. Purtroppo. Probabilmente anche l’ultraeuropeista Macron dovrà fare i conti con lo “stato maggiore” dell’attuale politica della Germania e le sue scelte economiche deflazioniste.
Ma torniamo a Marine Le Pen e alle sue carte da giocare. La leader del Front national dovrebbe contare sugli elettorati di due fuorusciti dal suo partito: Nicolas Dupont-Aignan (4,7 per cento) e François Assalineau (1 per cento): insieme quasi quanto la percentuale del partito socialista. Poi, cercherà di avvantaggiarsi di tutti i problemi con i quali deve fare i conti Emmanuel Macron, che abbiamo sintetizzato: dall’astensionismo alla non condivisione della linea di Fillon da parte dei gollisti e dei “tanto peggio tanto meglio” che possono pensare alcuni supporter di Mélenchon.
Dunque grande partita aperta, con il favorito d’obbligo Macron, sperando che il “tappo” della politica della Merkel salti e ritorni veramente il sogno europeo — non quello attuale che crea elezioni cariche di tensione e di panico.