Gli Stati Uniti hanno annunciato che non è più loro priorità la destituzione di Assad: lo ha affermato il segretario di Stato americano Rex Tillerson in una conferenza stampa tenuta con il suo omologo turco ad Ankara.

La circostanza di questa dichiarazione è stata l’incontro bilaterale tra Tillerson ed il ministro degli Esteri turco Cavusoglu. La visita del segretario di Stato americano intendeva migliorare i rapporti tra gli Usa e la Turchia deteriorati a causa del tentativo di colpo di Stato del 15 luglio 2016 e il rifiuto americano ad estradare Fetullah Gulen (considerato da Ankara l’ideologo del golpe). Inoltre, più di tutto, sulle relazioni con gli americani grava la questione curda: la Turchia pretende porsi come partner privilegiato degli Stati Uniti nella lotta contro Isis; Washington ha invece scelto come proprio partner il Syrian Democratic Force (Sdf), una coalizione di forze la cui ossatura è costituita dalle Unità di Protezione Popolare curde (Ypg). In cambio di tale appoggio gli Usa hanno promesso la creazione di una regione autonoma curda a nord della Siria. 



Il viaggio del segretario di Stato americano ad Ankara intendeva sanare le divergenze esistenti ma le posizioni, dopo un giorno di colloqui ininterrotti, sono risultate inavvicinabili. Come se questo non bastasse, nella conferenza stampa finale Tillerson ha detto che la priorità per gli Stati Uniti non è più la rimozione di Assad ma che “la permanenza al potere di Assad nel lungo termine dovrà essere decisa dal popolo siriano”. 



La posizione è stata ripetuta a New York dall’ambasciatrice americana alle Nazioni Unite, Nikki Haley, che ha affermato che “è necessario scegliere le proprie battaglie” e che perciò “la situazione richiede di cambiare le priorità degli Stati Uniti che non è più concentrarsi sulla partenza di Assad”. 

In definitiva, l’amministrazione americana ha semplicemente realizzato che ciò che sta accadendo in Siria solo per un’infinitesima parte dipende da Assad: questa evidenza però confligge con il supporto che Ankara ancora fornisce a vari gruppi jihadisti il cui obiettivo è uno stato coranico.



Così, dopo le dichiarazioni americane, la Turchia che aveva dichiarato conclusa l’operazione “Eufrate Shield” (sgradita agli americani), è tornata sui suoi passi: continuerà la sua presenza in Siria con l’avvio di una ulteriore operazione militare congiunta con i ribelli.

Non è un fatto positivo. La presenza turca in Siria è problematica a motivo del fatto che l’operazione “Eufrate Shield” (che nominalmente doveva essere contro Isis ma in realtà è contro i curdi) ha più volte mutato i suoi obiettivi a seconda degli umori e delle convenienze: solo lo scorso 29 novembre, Recep Tayyip Erdogan, commentando le attività turche in Siria, aveva dichiarato: “Abbiamo sofferto per molto tempo, ma alla fine siamo stati costretti a entrare con l’esercito siriano libero … Siamo venuti in Siria per porre fine al dominio di Assad, un tiranno crudele che ha organizzato nel paese un terrore di stato”. Tuttavia, nel mese di dicembre, il primo ministro Binali Yildirim dietro la richiesta di chiarimenti della Russia si era affrettato a spiegare che l’operazione “Eufrate Shield” non era finalizzata a rovesciare il governo siriano.

Dopo la dichiarazione distensiva di Tillerson è arrivata l’ultima versione: Erdogan ha specificato che la nuova operazione militare sarà indirizzata sì contro lo stato islamico ma “anche contro altri gruppi che la Turchia considera ‘terroristi’ come le Unità di Protezione Popolare curde” (sarebbe a dire gli alleati degli americani).
Per far capire la propria contrarietà a questa posizione, gli Stati Uniti avevano lanciato un segnale inequivocabile: per tutta la durata dell’operazione “Eufrate Shield” il supporto aereo americano è stato negato. Doveva essere un avviso chiaro per Erdogan. Ma per risposta, il suo portavoce (il 7 gennaio) ha minacciato la chiusura della base Nato di Incirlik.

Questa conflittualità complica il percorso già in salita: la situazione attuale in Siria e il futuro di questo paese dipende dalla coerenza dell’azione degli Stati Uniti, della Russia e della Turchia. Ed in questo contesto anche la posizione americana è ancora incerta: gli Stati Uniti non hanno ancora un piano chiaro per il futuro della Siria dopo aver sconfitto Isis e non c’è un’unanimità di vedute tra la Casa Bianca ed il Congresso dove permangono molte resistenze.

C’è un’altra nota negativa: mentre la nuova vision americana veniva riportata da tutte le agenzie di stampa, si è concluso sottotono ed in maniera infruttuosa il quinto round di colloqui di pace di Ginevra. L’inizio dei colloqui era stato salutato dai ribelli con una serie di sanguinosi attentati nella capitale siriana, seguiti da una potente offensiva concentrata soprattutto su Damasco ed Hama. Questa offensiva ha visto coinvolti sinergicamente tutti i gruppi “moderati” e tutte le varie sigle terroristiche. E’ inutile dire che questi attacchi hanno dimostrato non solo l’assoluta mancanza di volontà delle “opposizioni armate” per una soluzione politica del conflitto ma hanno anche svelato chiaramente la loro non idoneità a proporsi come nuova leadership. Di fronte ad una tale e palese situazione era chiaro che il rappresentante per le Nazioni Unite De Mistura avrebbe dovuto prendere posizione, condannare il terrorismo come tale, chiamare con il proprio nome chi slealmente e con il terrore parla di miglioramento dello status quo attuale e legittimarsi come rappresentante dei siriani.

Ma non lo ha fatto. Per questo Damasco pochi giorni fa ha dichiarato che il rappresentante Onu è indesiderato a Damasco ed a quando pare, secondo indiscrezioni, lo stesso ha presentato le dimissioni e non ha smentito.

Il quotidiano sconcerto di noi comuni mortali di fronte alla politica però non ha limite: è davvero sconvolgente che nonostante la posizione degli Stati Uniti sia diventata più ragionevole, le posizioni di Francia e Gran Bretagna (toccate entrambe duramente dal terrorismo) si identifichino ancora nelle stesse vecchie posizioni di Obama: i loro rappresentanti all’Onu hanno ancora una sola richiesta: “Assad se ne deve andare”.