Il 4 aprile un attacco aereo dell’aviazione siriana nel villaggio di Khan Shaykhun, situato nella roccaforte jihadista di Idlib, ha causato più di 70 morti e almeno un centinaio di feriti. L’Osservatorio siriano per i diritti umani ha affermato che l’aviazione siriana ha usato gas sarin, un gas nervino. La notizia è stata accompagnata da foto e video che mostrano i “White Helmets” in atto di soccorrere le vittime dell’attacco, tra cui ci sono molti bambini.



A fronte di questi fatti, la Comunità internazionale ha subito attribuito la responsabilità dell’accaduto ad Assad ed ha condannato l’episodio minacciando serie ritorsioni. Le accuse dei leader europei e dello stesso presidente americano Trump sono state molto forti. Quest’ultimo ha anche voluto rafforzare la sua accusa facendo riferimento al precedente attacco chimico a Ghouta (Damasco) del 21 agosto 2013 (in realtà ampiamente dimostrato non essere stato opera di Assad), per criticare Obama definendo “uno sbaglio” non aver ordinato allora un attacco diretto. 



Anche la Russia ha dato la sua versione: il rappresentante del ministero della Difesa russo Igor Konashenkov ha affermato che l’aviazione siriana il giorno 4 aprile ha attaccato magazzini in Khan Shaykhun dove i militanti erano impegnati nella produzione di munizioni con agenti chimici: l’esplosione ha volatilizzato e disperso le sostanze tossiche stoccate dai terroristi. Da parte sua, il governo siriano ha smentito di aver mai usato munizionamento chimico e ha dichiarato di non possederlo (non potendo di conseguenza essere ritenuta responsabile addirittura delle violazioni altrui).



Ma queste dichiarazioni non sono bastate: Stati Uniti, Regno Unito e Francia hanno comunque proseguito con le loro accuse. Essi hanno presentato una mozione di condanna al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite contro la Repubblica Araba Siriana che non avrebbe adempiuto agli obblighi nella distruzione delle armi chimiche. Il documento (che non tiene minimamente in conto la spiegazione russa) prevede un’indagine unilaterale rivolta verso il solo stato siriano (e non anche verso l’operato dei jihadisti). La Russia ha già detto che porrà il veto.

E’ chiaro che quando è successo pecca di un difetto ormai ripetuto. Dovremmo partire ad analizzare i fatti lealmente ed astenerci da condanne preventive prima che siano verificate le circostanze in tutte le direzioni.

Le dichiarazioni di condanna della Comunità internazionale invece non tengono consapevolmente conto di numerosi fattori. L’esempio di questa prassi è dimostrata dalle parole di Trump, che attribuisce ancora al governo siriano la strage di Ghouta del 2012.

Ora, è chiaro che il presidente degli Stati Uniti d’America non può non conoscere gli esiti delle indagini compiute a seguito della strage di Ghouta. Egli sa benissimo che tutte le indagini effettuate hanno scagionato il governo siriano. Tuttavia non solo omette di dirlo e non ne tiene conto, ma usa l’episodio per replicare il clima di quei giorni.

Vale la pena di ricordare quell’episodio se non altro perché sembra la fotocopia dell’attacco chimico di Idlib. Di Ghouta non si sa ancora esattamente il numero delle vittime (esse vanno da “almeno 281 a 1.729 morti” dice Wikipedia) e la Commissione Onu non ha ancora potuto accertare le responsabilità (qui il rapporto conclusivo: United Nations Mission to Investigate Allegations of the Use of Chemical Weapon).

In quell’occasione, al di là di quanto scritto dall’unico corrispondente italiano che era allora sul posto e del reportage di Sharmine Narwan e Radwan Mortada, meriterebbero essere presi sul serio almeno soprattutto i risultati che il Mit (Science, Technology and Global Security Working Group, Massachusetts Institute of Technology, Usa) ha effettuato in una sua ricerca. Lo studio dimostra che l’attacco chimico di Ghouta non può essere stato effettuato da Damasco (Possible implication of faulty US tecnichal intelligence in the Damascus nerve agent attack).

Un’altra indagine è stata effettuata dal premio Pulitzer Seymour Hersh, l’icona del giornalismo investigativo mondiale; si tratta della sua oramai celebre inchiesta “Whose Sarin?” (vedi anche qui). Il risultato di questa inchiesta è che l’attacco è stato effettuato dai ribelli e non dai governativi.

Dubbi sulla paternità dell’attacco sono stati sollevati anche dall’Istituto Internazionale per la Pace, Giustizia e Diritti Umani (Isteams), che ha pubblicato una sua relazione (The chemical attack of east Ghouta).

Ci sono inoltre report giornalistici in cui i ribelli dicono esplicitamente che è stato compiuto da loro (articolo di Dale Gavlak che lavora anche per Associated Press).

E’ utile ricordare che quel funesto episodio ha analogie con quello del 4 aprile. Anche in quella circostanza vennero mostrati corpi di bambini asfissiati. Però c’è un particolare ancora generalmente sconosciuto ma trattato dal già citato rapporto di Isteams: molti di quei bambini (vittime dell’attacco chimico di Ghouta) furono riconosciuti da famigliari e parenti. Si trattava di bambini appartenenti ad un gruppo di circa 200 persone rapiti pochi giorni prima dai “ribelli” in provincia di Latakia. Questi bambini si ritrovarono ognuno affiancato all’altro a Ghouta dopo l’attacco chimico ad uso e consumo delle telecamere per dimostrare la colpevolezza di Assad che “uccide il suo popolo” con l’uso delle armi di distruzione di massa e suscitare più decisamente la riprovazione della comunità internazionale. 

Un’altra cosa su cui riflettere sono le “prove” video realizzate dai ribelli, precisamente dai White Helmets. Essi sono considerati neutrali, indipendenti, autofinanziati, esclusivamente civili. Ma così non è. Hanno ricevuto oltre 40 milioni di dollari dallo Usaid e dal Foreign Office britannico, entità direttamente coinvolte nel conflitto in Siria. Non sono affatto disarmati: ci sono fotografie e film di membri del gruppo che sostengono Al Nusra/Al Qaeda. Altre foto e video mostrano i loro “attivisti” mentre assistono all’esecuzione di civili o mentre esultano sui corpi di soldati morti. I White Helmets lavorano solo nelle aree controllate da gruppi armati estremisti. Fomentano il settarismo in Siria, chiedendo ad esempio di incendiare Kafarya e Foua, due villaggi sciiti assediati da 5 anni nell’area di Idlib. Hanno più volte chiesto la no-fly zone, i cui risultati in Libia si sono visti.

Questi fatti di un passato recente dovrebbero indurre più prudenza. La domanda è semplice: perché questo non avviene?