Dopo l’attacco missilistico alla base aerea siriana, Trump dovrebbe forse cambiare il suo slogan da “America first” a “America always the same”, America sempre la stessa. Ci si poteva illudere che le differenze tra Trump e Obama non si limitassero al linguaggio, rozzo quello del primo, da establishment quello del secondo, ma potessero portare a un raffreddamento dei rapporti internazionali, pericolosamente tesi. 



L’attacco missilistico contro la Siria di Assad dimostra che anche il tycoon soggiace all’ideologica pretesa di governare il mondo tipica di certa cultura americana, non rinunciando neppure alla facciata di moralismo ipocrita. E’ risibile l’immagine di un Trump sconvolto e commosso alla vista dei bambini siriani morti, tanto da non poter resistere e dover sferrare l’attacco riparatore. Perché Trump non si commuove anche di fronte ai bambini yemeniti fatti a pezzi dagli aerei sauditi e non va a bombardare Riyadh? Forse perché le bombe a grappolo, anch’esse proibite dalle convenzioni internazionali, sono fornite dagli States?



E che dire dell’ipocrisia di Bruxelles e di vari governi europei, che si sono subito allineati alla versione statunitense? Eppure, come scritto in molti articoli anche sul sussidiario, non vi è nessuna prova certa su chi abbia realmente utilizzato armi chimiche, il regime di Damasco o qualche formazione ribelle. Lo stesso scenario del 2013, che portò la maggior parte delle inchieste, peraltro, ad accusare formazioni ribelli. 

A quanto pare, il governo russo aveva chiesto la formazione di una commissione internazionale di inchiesta, proposta che è stata lasciata cadere per passare alle vie di fatto. Nessuno pensa che Assad sia così “buono” da non voler usare armi chimiche, ma attuare rappresaglie senza prove certe è segno o di estrema arroganza o di difficoltà.



Trump sembra aver unito entrambe le possibilità. Sotto il profilo della politica estera, l’attacco missilistico contro Assad sembra decisamente incoerente: aggrava la già tragica situazione in Siria, aiutando di fatto i jihadisti, alza inutilmente il livello di scontro con l’Iran, dà manforte a Erdogan e alla sua ascesa autoritaria, irrita la Cina, anche perché l’attacco è avvenuto all’inizio della visita di Xi Jinping in Usa, riporta a un livello molto teso i rapporti con la Russia. Perché allora?

Il motivo va probabilmente ricercato in ragioni di politica interna, dove Trump si trova attualmente in difficoltà, con il fallimento della sua controriforma sanitaria, le incertezze sulla sua politica economica e le difficoltà ricorrenti nella composizione del suo staff. E’ significativo che, accanto all’improbabile “commozione” già citata, Trump abbia fornito come giustificazione all’attacco che lui, a differenza di Obama, quando fissa delle “red lines” poi le fa rispettare.

Insomma, il “duro” Donald verso il “mollaccione” Barack, una rappresentazione che può forse sortire qualche effetto sull’elettorato americano, ma che difficilmente spaventerà Putin o Jinping, e probabilmente neppure al Baghdadi che, anzi, starà ringraziando per il colpo inferto al nemico Assad. A ulteriore conferma viene quanto messo in rilievo da diverse testate americane e inglesi, cioè l’invito fatto da Hillary Clinton, poche ore prima della decisione di Trump, ad attaccare le basi aeree di Damasco, cosa che si è rammaricata non sia stata fatta dalla precedente amministrazione. Nessuno, credo, si sia raffigurato Trump come una colomba, ma lascia tuttavia perplessi questo suo pericoloso identificarsi con il falco Hillary.