Patrizio Ricci, nel suo recente articolo sul sussidiario, ha ben delineato la situazione di contrasto esistente tra Stati Uniti e Turchia, contrasto che la visita del Segretario di Stato Rex Tillerson non pare aver appianato. La nuova amministrazione sembra infatti non molto disposta ad accontentare le richieste turche su tre punti decisamente critici per Ankara: la cacciata di Assad, l’estradizione di Fethullah Gulen, i rapporti con i curdi. L’attacco missilistico contro la base aerea del governo di Damasco è stato accolto con ovvio favore dal governo turco, ma la Casa Bianca ha dichiarato che si tratta di un’azione isolata. Quindi, almeno formalmente, non è una sconfessione della visita di Tillerson ad Ankara, anche se appare come un innalzamento del livello di scontro con la Russia, che potrebbe complicare anche i rapporti tra Ankara e Mosca.
La questione che rimane più critica è l’appoggio che gli Stati Uniti stanno dando alle milizie curde in Siria, che potrebbe sfociare nella costituzione di una regione autonoma sull’esempio del Kurdistan iracheno. Washington non sembra pronto a ritirare il suo appoggio ai curdi siriani, elementi preziosi nella lotta contro Isis e altri jihadisti, e saranno le milizie curde, non l’esercito turco o le milizie sostenute da Ankara a partecipare a quello che potrebbe essere l’attacco definitivo a Raqqa, la capitale siriana dell’Isis. A meno di un voltafaccia di Trump anche su questa questione.
Erdogan ha comunque finora mantenuto verso gli americani toni che rimangono all’interno della freddezza diplomatica, così come rimane cauto il tono usato con Mosca. I commenti di parte turca hanno data per scontata la responsabilità di Assad nell’uso delle armi chimiche, ma una dichiarazione del ministro degli Esteri turco aveva mosso critiche non alla Russia, alleata di Damasco, ma all’incapacità di intervento dell’Occidente. Queste critiche hanno avuto una immediata risposta da Trump.
Di tutt’altro tono, vere e proprie invettive, le dichiarazioni di Erdogan contro l’Europa. Ha cominciato con la definizione di “nazisti” affibbiata al governo olandese, che aveva impedito a rappresentanti del governo turco di far propaganda a favore di Erdogan per il referendum costituzionale del 16 aprile. Erdogan aveva anche ricordato il comportamento del contingente olandese sotto bandiera Onu che, nel 1995, non si oppose ai serbi nel massacro di musulmani a Srebrenica in Bosnia.
Il presidente turco ha definito gli olandesi “marci”, affermando che l’avrebbero pagata. Il comportamento dei militari olandesi fu decisamente criticabile e le responsabilità furono infine riconosciute anche in Olanda, con le dimissioni nel 2002 del governo allora in carica. Tuttavia, la Turchia non aveva e non ha interessi diretti nella tragica vicenda e la minaccia di Erdogan sembra piuttosto fatta nella sua nuova veste di capo musulmano, e non come capo di Stato.
Erdogan ha infatti invitato i connazionali residenti in Europa a fare almeno 5 figli, per diventare “il futuro dell’Europa”, facendo così della demografia un’arma di conquista, minaccia usata finora proprio dal fondamentalismo islamico. E tipica del fondamentalismo, dell’Isis e di altri gruppi jihadisti, è anche l’ultima accusa di Erdogan all’Unione Europea di essere “un’alleanza di crociati” e di aver per questo rifiutato l’adesione della Turchia. L’occasione è stata la visita a Papa Francesco dei leader europei, rei secondo Erdogan di atteggiamento “condiscendente” verso il Pontefice.
Questi accenti esagitati e minacciosi fanno pensare che Erdogan non sia così sicuro di vincere il prossimo referendum. Nonostante le repressioni seguite al fallito colpo di Stato, l’opposizione all’allargamento dei poteri presidenziali è forte e non solo da parte dei partiti di opposizione, come quello repubblicano o quello della minoranza turca. Significativa in tal senso la decisione presa da alcuni professori licenziati dall’Università di Ankara di continuare le lezioni per la strada. Rimane comunque innegabile la deriva fondamentalista della strategia di Erdogan e sarà per lui difficile tornare indietro. Ciò rende estremamente pericoloso per la Turchia e per l’intera regione il referendum del 16 aprile, qualunque sia il suo risultato.
L’involuzione di Erdogan pone problemi non solo all’Europa, agli Stati Uniti e alla Russia, ma anche alla Nato, di cui la Turchia è membro, considerata un tempo il bastione occidentale verso l’Unione Sovietica. Forse è decisamente giunto il momento di rivedere a fondo scopi e strutturazione dell’organizzazione e soprattutto, per i governi europei, il loro atteggiamento di fronte ad un Erdogan che si comporta sempre più come un novello califfo. Senza aspettare imbeccate da un imprevedibile Trump.