Se, da un lato, il risultato del recente referendum sulla riforma costituzionale in Turchia non può non sollevare legittime preoccupazioni, tuttavia non condivido la visione catastrofica che ha caratterizzato molti commenti alla mezza vittoria (e perciò alla mezza sconfitta) di Erdogan.
Si tratta di un esito figlio di anni politica oscillante tra la voglia – dettata dalla razionalità – di strutturare il dialogo con l’Europa e il desiderio, istintivo e perciò assai più forte, di riappropriarsi della leadership del mondo islamico, nel sogno della ricostruzione dell’impero ottomano. Fino alla teorizzazione di un’impossibile via di mezzo: diventare il riferimento del mondo musulmano dentro un rapporto organico con l’Occidente.
La storia boccia sempre indecisioni e illusioni, e il declino del presidente turco, al quale oggi assistiamo, ne è la naturale conseguenza. Un declino di cui non è difficile evidenziare alcuni passaggi avvenuti negli ultimi due anni:
Le elezioni politiche del 2015, nelle quali, per la prima volta, il partito di Erdogan non era stato in grado di conquistare la maggioranza assoluta, costringendo il Paese a nuove elezioni dopo pochi mesi: in questo contesto spiccava una crescita inaspettata del partito curdo;
Il fallito colpo di stato del luglio 2016 e le conseguenti reazioni violente di Erdogan, sintomo di paura e di debolezza più che prova di forza;
La tentazione del presidente in affanno di un rientro nell’orbita russa, il cui prezzo, cioè l’uscita dalla Nato, sarebbe stato però troppo alto per la Turchia;
La necessità stessa di indire il referendum, soluzione di ripiego rispetto alla via maestra tentata più volte invano, cioè l’approvazione del passaggio al presidenzialismo in Parlamento, dove sarebbe stata necessaria una maggioranza rivelatasi, nei fatti, impossibile;
Il tentativo di Erdogan di ottenere una legittimazione come protagonista della soluzione della crisi siriana, in una strana e innaturale triangolazione con Putin e il nemico Assad;
L’orrendo attacco siriano con i gas chimici a Idlib, proprio alla vigilia del referendum costituzionale (solo una casualità?), con una reazione emotiva all’interno della Turchia che ha spinto il suo presidente ad applaudire alla reazione americana.
Ora Erdogan è di fronte alla realtà di un Paese spaccato a metà, e il suo presunto totalitarismo – se volessimo coniare un neologismo – dovrebbe in realtà definirsi un “mezzarismo”. I veri totalitarismi sono altra cosa: chi può immaginare Putin o Xi Jinping costretti a farsi legittimare da un referendum? O i capi di sistemi come Arabia Saudita, Kazakhstan, Bielorussia, Venezuela, Cuba, solo per citarne alcuni?
Del resto, fino ad oggi Erdogan ha già occupato tutti gli spazi di potere reale, e l’esito del referendum non è destinato a cambiare in modo sostanziale le cose.
Non si tratta di giustificare il leader turco, i cui demeriti stanno purtroppo superando gli indubbi meriti accumulati negli anni nei quali è stato capace di rilanciare l’economia turca, ma di giudicare con serenità, per quanto possibile, fatti troppo complessi per essere ridotti a categorie semplificate, per non dire semplicistiche.
Non dimenticando che, nel quadro geopolitico attuale, il colosso turco è ancora più importante che in passato per l’intero occidente, dove nessuno può augurarsi, né permettersi il rischio, che esso si spacchi, prefigurando la nascita, questa volta, di una vera dittatura, in un probabile e pericoloso asse Mosca-Ankara-Teheran. Non l’Europa, che perderebbe un fondamentale cuscinetto verso mondi non certamente amici; non la Nato, che perderebbe un perno strutturale e indispensabile, anche militarmente; non la stessa Turchia, che non può fare a meno della Nato (e, probabilmente, è più la Turchia a non poter fare a meno della Nato che non viceversa); non gli Usa, costretti oggi a riprendere in considerazione il quadrante medio-orientale, abbandonato dopo gli anni delle quantomeno discutibili scelte di disimpegno fatte da Obama.
La spaccatura, e il conseguente inevitabile tracollo, della Turchia farebbero solo il gioco della Russia, dell’Iran, e, più a oriente, della stessa Cina, sempre pronta ad approfittare delle debolezze altrui. L’unico errore che non ci possiamo consentire in questo momento è quello di allargare la frattura creatasi nel Paese dopo il referendum.
Che fare, allora?
Non possiamo interrompere il dialogo, nemmeno alla luce di fatti clamorosi come le violazioni delle libertà fondamentali alle quali stimo assistendo. Occorre, anzi, intensificare questo dialogo e incalzare con sempre maggiore decisione Erdogan sui temi più spinosi: rispetto dei diritti umani, libertà di espressione, democraticità dei processi interni, collaborazione sui dossier più spinosi a partire da quello dei rifugiati, ponendo la condizione di una immediata sospensione dello stato di emergenza, che lo legittima ad avere poteri pressoché totali. E questo a prescindere dalla ripresa o meno dei negoziati per l’adesione alla UE, peraltro mai lontana come in questo momento.
Non è un compito facile per nessuno, ma non ci sono alternative. L’Italia può svolgere un ruolo decisivo, grazie ai buoni rapporti che esistono da sempre tra i due Paesi.
Il dialogo conviene anche allo stesso Erdogan, che altrimenti non potrà fare altro che continuare a mostrare i muscoli, minacciando altri referendum come quelli su pena di morte o interruzione delle trattative con l’Europa, con i quali spera di tornare a percentuali importanti di consenso, dopo il deludente esito della consultazione costituzionale. Su questo, chi potrebbe convincerlo a smetterla con il gioco d’azzardo referendario sono Renzi e Cameron, che ne portano, e ne porteranno ancora a lungo, i lividi e le ferite.