Nei giorni scorsi sono state liberate 82 delle 276 ragazze nigeriane rapite da Boko Haram nell’aprile del 2014 durante l’attacco alla scuola di Chibok, nello stato nordorientale di Borno. Una bella notizia, ma oscurata dal fatto che oltre 100 ragazze sono ancora prigioniere degli estremisti islamici, insieme ad altre centinaia di donne e bambini secondo quanto riporta Amnesty International. Molte polemiche, inoltre, hanno provocato le modalità del rilascio: la liberazione di cinque esponenti di Boko Haram detenuti dal governo nigeriano e, sembrerebbe, il pagamento di un riscatto. Secondo i critici dell’accordo, ciò darebbe a Boko Haram la possibilità di avviare un vero e proprio commercio con le ragazze ancora trattenute, rafforzando così l’organizzazione estremista. Il governo di Abuja ha smentito questa ipotesi, sostenendo che i territori prima sotto il controllo di Boko Haram ora sono stati resi sicuri dalle forze governative.



Una versione questa che non convince l’arcivescovo cattolico di Abuja, il Cardinale John Olorunfemi Onaiyekan, che in un’intervista all’Agenzia Fides si chiede per quali ragioni questo scambio non sia stato fatto tre anni fa, come chiesto da più parti, e accusa il governo di aver trattato la questione con disattenzione. Anche le riassicurazioni sulla messa in sicurezza del nord-est del Paese sembrano essere troppo ottimistiche e, pur più debole che in passato, Boko Haram ha esteso i suoi attacchi ai confinanti Camerun, Ciad e Niger.



L’estremismo islamico non si limita al nord-est della Nigeria, ma è presente anche nel nord del Paese, come nello stato di Kaduna, dove i jihadisti di etnia fulana hanno compiuto ripetuti attacchi contro i cristiani. Come riporta Radio Vaticana, l’ultimo episodio risale allo scorso aprile con la morte di dodici persone, di cui dieci cattolici, e  Mons. Joseph Bagobiri, vescovo di Kafanchan, denuncia l’assenza di intervento e perfino la complicità del governo in questi episodi.

La Nigeria, come gran parte degli Stati africani, è divisa in molte etnie, ma un fattore rilevante di divisione è quello religioso, con il nord a maggioranza musulmana, il sud-est a maggioranza cristiana e le altre regioni con le due confessioni mescolate. In 12 dei 36 stati che compongono la repubblica nigeriana è stata elevata a legge dello stato la sharia, dando luogo così a un sistema giuridico duale, uno con tribunali che giudicano secondo le leggi dello Stato e l’altro con tribunali islamici che si rifanno alla sharia. Questa situazione viola pesantemente il concetto di certezza del diritto e rende difficile l’applicazione delle leggi federali. 



Inoltre questo sistema, negli stati in cui è applicato, sta causando una discriminazione di fatto verso le minoranze, in primo luogo i cristiani. Ora è stata anche avanzata la proposta di estendere la sharia a tutta la Nigeria, sostenendo che non entrerebbe in collisione con la legge dello Stato, in quanto sarebbe applicata solo ai musulmani. Tuttavia, proprio l’esperienza degli stati nigeriani in cui ciò già avviene dimostra come questa proposta porterebbe a una situazione generale di confusione e conflittualità molto pericolosa per la Nigeria e per il rispetto dei diritti civili. 

La sharia è diventata fonte principale del diritto, spesso l’unica, in un numero rilevante di Stati con popolazione a maggioranza musulmana, moltiplicando così i rischi di discriminazione nei confronti dei non musulmani.

L’Occidente si è rivelato incapace di fronteggiare i movimenti islamici estremisti e violenti, a partire da al Qaeda, data per morta dopo l’uccisione di Bin Laden e che invece, come dimostra la tragedia siriana, “vive e lotta insieme a noi”, come si diceva un tempo. Al Qaeda, Isis, Boko Haram, al Shabaab, le cui azioni coinvolgono almeno una decina di Paesi del Medio Oriente e del continente africano, rappresentano la versione violenta del tentativo di istituire stati islamici. L’introduzione della sharia come legge dello Stato sembrerebbe costituire la versione pacifica dello stesso tentativo. La sharia è, infatti, alla base di ogni Stato che si definisca islamico, una teocrazia in cui non vi è distinzione tra ambito religioso e ambito politico o sociale.

Esempi in cui questo tentativo ha avuto successo, con l’instaurazione di una rigida teocrazia, sono Iran e Arabia Saudita, ma con esiti diversi sul piano internazionale. L’Iran è stato posto sotto embargo per i suoi piani di sviluppo nucleare e definito, anche recentemente dal presidente americano Trump, sostenitore di movimenti terroristici. Il rigido regime wahabita del regno saudita, nonostante il suo provato appoggio all’estremismo islamico, è uno dei maggiori alleati degli Stati Uniti, oltre che forte acquirente di armi dagli Usa, Francia e Uk. Diverso anche il trattamento da parte dell’Onu, che il mese scorso ha ammesso l’Arabia Saudita nella Commissione  delle Nazioni Unite sullo status delle donne, degno seguito della decisione nel 2015 di nominare un esponente saudita a capo del Consiglio per i diritti umani dell’Onu.