Lo scorso 6 maggio il ministro degli Esteri Angelino Alfano si è recato a Tripoli con una missione-lampo per incontrare i vertici del Governo di accordo nazionale a marchio Onu. L’obiettivo di tanta premura era quello di sostenere apertamente il “vertice di Abu Dhabi” tra Fayez al-Serraj e Khalifa Haftar e i possibili accordi da questo derivati, ma mal celava, nella realtà dei fatti, la preoccupazione del Governo italiano di essere tagliato di nuovo fuori dalla partita libica. 



Andiamo per gradi. Il 2 maggio iniziano a rimbalzare nei media le immagini dell’incontro tra l’uomo forte di Tobruk e il premier tripolino svoltosi nella capitale degli Emirati Arabi Uniti, giova ricordarlo, alleati di ferro del generale della Cirenaica.

In un primo momento molti avevano sperato che, dopo una serie di tentativi di mediazione falliti a causa delle bizze del generale, gli alleati, spazientiti, lo avessero ricondotto a più miti consigli e questo aveva lasciato spazio a un cauto ottimismo per il futuro del paese. Subito dopo, però, iniziano a trapelare possibili indiscrezioni sui contenuti della proposta di accordo mediata dalla triade pro-Haftar, composta da Russia, Emirati ed Egitto. Un piano per il futuro della Libia palesemente sbilanciato verso l’ala di Tobruk: elezioni entro marzo 2018, scioglimento delle milizie locali, formazione di un nuovo Consiglio presidenziale formato da Sarraj, Haftar e dal presidente del Parlamento di Tobruk, fedele al generale, Aghila Saleh, e, forse, un comando delle forze armate maggiormente svincolato dal controllo civile.



E’ plausibile ipotizzare che Serraj, conscio della rabbiosa reazione dei gruppi islamisti di Tripoli avversi ad Haftar, abbia “nicchiato” su questa proposta. Tuttavia l’idea che il generale potesse in un sol colpo avere la più importante istituzione libica dalla sua parte, con Serraj in minoranza, un ruolo militare di primo piano e la possibilità di presentarsi alle elezioni, magari anche vincendole, ha sicuramente fatto rivedere all’Italia i termini del proprio sostegno a Tripoli. A più di un anno dall’insediamento del “premier unitario” il bilancio non è dei più entusiasmanti. La capitale è nel caos, il generale Haftar controlla importanti e ricche zone del paese e, come se non bastasse, siamo rimasti gli unici a sostenere Serraj, visto Trump ha chiaramente fatto capire a Gentiloni, durante la sua recente visita a Washington, che in Libia dobbiamo cavarcela da soli. Trovare un compromesso con Haftar, strada oramai percorsa da tutti i nostri poco solidali alleati internazionali, è parsa una scelta obbligata anche per l’Italia che si è trovata a formalizzare in seconda battuta una decisione presa da altri. Così come è accaduto nel 2011 quando siamo stati letteralmente “coscritti” nella Coalition of willings voluta dai francesi per rovesciare Gheddafi.



Tuttavia un ruolo possiamo ancora averlo. Cerchiamo di capire come. A ben guardare, l’intesa di Abu Dhabi presenta delle criticità rilevanti in termini di applicabilità che rischiano di minarne fin da ora le fondamenta. Le forze islamiste, e in particolare le numerose milizie di Misurata, difficilmente potrebbero accettare un qualche ruolo del nemico giurato Haftar nel futuro della Libia. E’ più plausibile ipotizzare che, qualora Serraj dovesse mollare la presa e accettare alcune delle gravose richieste del generale, queste si opporranno in armi fomentando il caos nella capitale e più in generale nel paese. Da ciò risulta evidente che la partita libica non è ancora chiusa ma, anzi, ora come non mai sono necessari importanti sforzi di mediazione, non più tarati solo sui desiderata degli alleati di Tobruk ma capaci di includere gli attori locali e regionali (Algeria e Tunisia in primis) che hanno un qualche interesse alla stabilizzazione del paese. L’Italia, sfruttando il capitale di fiducia che ha maturato con gli attori tripolini, potrebbe ancora dire la sua.