Il 24 luglio 1945, il presidente degli Stati Uniti Harry Truman si trovava a Potsdam. La Germania nazista si era arresa da dieci settimane e le potenze vincitrici si ritrovavano in una Berlino semidistrutta cinque mesi dopo il vertice di Yalta. A Potsdam, per ridiscutere il futuro del pianeta, non c’erano più né Franklin Delano Roosevelt né Winston Churchill: c’era ancora Stalin, il “piccolo padre” della Russia sovietica. Truman fino all’aprile 1945 era un semisconosciuto politico del Sud agrario degli States, giunto in modo abbastanza casuale alla vicepresidenza di FDR, mostro sacro al suo quarto mandato alla Casa Bianca.
Nelle sue memorie Truman ha raccontato che al sesto giorno della conferenza, conclusa la sessione pomeridiana, si avvicinò da solo al leader di Mosca: “I casually mentioned to Stalin that we had a new weapon of unusual destructive force. The Russian Premier showed no special interest. All he said was he was glad to hear it and hoped we would make ‘good use of it against the Japanese'”. La unusual force di cui Truman aveva ritenuto di parlare casualmente, in piedi, a Stalin era la bomba atomica: fatta esplodere la prima volta dieci giorni prima nel deserto del New Mexico.
Non ci furono testimoni al di fuori dell’interprete russo di Stalin: il segretario di Stato americano James Byrnes – padre della famosa immagine “una potenza di mille soli” – osservò la scena a distanza. Truman gli disse poi di aver informato Stalin del più strategico e costoso segreto di Stato della storia, ma la cosa non filtrò in alcun modo nella fase conclusiva della conferenza. L’ultimatum al Giappone del 26 luglio non contenne né avvertimenti né minacce. Il 6 e 9 agosto i primi – e finora unici – ordigni atomici usati con fini bellici furono sganciati su Hiroshima e Nagasaki. L’8 agosto l’Urss dichiarò guerra contro il Giappone, ma il 15 il conflitto era finito in ogni punto del globo.
Non risulta che la Washington Post abbia mai accusato quel presidente democratico – né allora né mai – di aver violato la sicurezza nazionale condividendo con la sua controparte russa un’informazione di quella portata. Era di Truman la piena responsabilità istituzionale di decidere tutto o il suo contrario all’interno della governance democratica degli Usa: così come FDR aveva deciso di impegnare 23 miliardi di dollari odierni e un’armata di 130mila persone (fra di essi il Nobel italiano Enrico Fermi) nella costruzione della bomba.
Truman era un modesto avvocato del Missouri ma gli americani lo avevano eletto democraticamente come vicepresidente (e lo rielessero presidente nel 1948). Se aveva voluto parlare della bomba ai reds ci aveva sicuramente pensato su e aveva deciso per il meglio degli States: nessuno ha mai pensato che potesse essere una spia, un matto o anche solo un dilettante pasticcione (molti invece lo pensarono, senza dirlo, di John Kennedy quando esordì con l’invasione-fiasco della Baia dei Porci contro la Cuba castrista).
Né alcuno, a Washington, pensò in seguito che il presidente repubblicano Ronald Reagan fosse un pazzo temerario, traditore dei suoi ideali, quando nel 1986 volò a Rejkyavik e si chiuse un’intera giornata in una villetta artica con il leader russo Michail Gorbaciov. Molti, invece, continuano a pensare che Reagan sbagliò a non fidarsi dell’offerta sovietica di accelerare al massimo il disarmo bilaterale. Quel giorno, comunque, Reagan poté “condividere” nei colloqui con Gorbaciov un’impressione molto riservata: l’Urss era al collasso.
Chissà se alla Washington Post lo capirono, o se erano sempre lì a gingillarsi con l’idea che l’unico presidente repubblicano buono è quello impallinato grazie alle soffiate dell’Fbi ai giornali “democratici”. Invece, 45 anni dopo il viaggio di Richard Nixon nella Cina di Mao, Donald Trump sta negoziando un nuovo “trattato di pace” con Pechino: non più ideologico e militare, ma economico e geopolitico. Queste mentre sta cercando una exit strategy sullo scacchiere mediorientale: “condividendo” informazioni e analisi con il ministro degli Esteri di Vladimir Putin, quel Sergej Lavrov considerato il più esperto diplomatico oggi in attività.
A tirare le fila in America c’è ancora il 93enne Henry Kissinger, più forte di ogni capacità di sopportazione politico-intellettuale in tutti media e le università della east coast. Che lo scorso novembre hanno tutte votato in massa un candidato presidente che da segretario di Stato spediva mail riservate in cambio di contributi “umanitari” alla Fondazione del marito.