Gentiloni ha lasciato Pechino, dove Xi Jinping ha snocciolato i miliardi che la Cina intende investire nella nuova Via della Seta, ed è volato verso casa, facendo però tappa a Sochi, dove ieri ha incontrato Vladimir Putin. Un summit, quello con il presidente russo, che rischia di derubricare l’importanza strategica — per l’Italia — della visita di Gentiloni in Cina. Il progetto “One Belt One Road” è un gigantesco ponte tra Asia ed Europa che prevede investimenti per 900 miliardi di dollari nei prossimi 5-10 anni. Con la sua visita, Gentiloni ha dimostrato che l’Italia vuole giocare la partita. Al nostro paese resta solo, si fa per dire, di mostrarsi un partner all’altezza. Ne abbiamo parlato con Francesco Sisci, editorialista di Asia Times.



La nostra visita è stata ben preparata?

E’ stata una visita formale, perché in realtà l’occasione era puramente formale: un grande vertice per segnare il lancio ufficiale della nuova Via della Seta, che come quella antica va dalla Cina all’Italia e viceversa. C’è stata poi una iniziativa particolare con il lancio di Slow Food Cina, fatto da cinesi appunto, cosa che porta nel paese la nostra sensibilità alimentare e potrebbe diventare anche un’occasione per aiutare le esportazioni dell’agroalimentare. Ma certo ora bisognerebbe cominciare a lavorare nel concreto. 



Qui forse cominciano i problemi. Gentiloni ha detto che “nessuno ha un sistema portuale come l’Italia, già collegato con l’Europa”; ha messo sul tavolo della Via della seta i porti di Genova e Trieste “collegati con i corridoi ferroviari all’Europa centrale e del Nord”. Addirittura ha offerto Venezia come “luogo simbolo”. Da Pechino lei cosa vede?

L’offerta dei porti italiani mi pare molto confusa. Venezia è molto attiva, e fa bene, ma il progetto di un porto fuori dal porto mi pare una chimera, o comunque un progetto a lungo termine mentre gli scambi sono già cominciati. Trieste e Genova hanno problemi diversi ma sempre di problemi si tratta: sono al di là del corpo centrale del paese e i collegamenti con l’Italia e l’Europa sono arretrati e incerti. 



Cosa servirebbe?

Servirebbe un porto al Sud, che tagliasse mille chilometri circa di navigazione al nord e inserisse tutta l’Italia dentro un progetto di trasporto. Ma per esempio a Taranto, dove si va ad eleggere il nuovo sindaco, ci sono circa 16 liste: e nessuna fa del lancio del porto la sua bandiera. Né la Regione interviene, né il governo.

L’Italia sa bene che la Cina possiede il porto del Pireo. Ma  Gentiloni ne ha parlato quasi come se l’Italia su questo dovesse rivaleggiare con la Grecia, o come se avessimo già fatto tutto quello che potevamo. 

In realtà i cinesi al Pireo non volevano andare. Ci sono finiti dopo essere fuggiti per disperazione da Taranto. Se l’Italia non offre oggi qualcosa di concreto e attuale, non solo i cinesi ma nessuno dall’Asia userà seriamente e in maniera importante i porti italiani.

Qual è la partita pluridecennale persa dal sud Italia?

Prodi ebbe l’intuizione geniale alla fine degli anni 90 di lanciare Taranto come hub. Un proposito al quale nessuno ha dato seguito concreto. Eppure, l’Italia è stata grande a partire dai suoi porti. Le repubbliche marinare hanno ereditato il Mare Nostrum dei romani e hanno creato con i loro porti la ricchezza del Rinascimento. Oggi di nuovo sta rinascendo il Mediterraneo come crocevia degli scambi di tutto il mondo. Siamo su una montagna di pietre preziose. Ma per raccoglierle bisogna organizzarsi, altrimenti avremo le briciole o niente.

Perché Gentiloni non ha citato il Sud?

Non lo so perché. E dire che l’Italia si è fatta al Sud, con Garibaldi, e oggi la si deve rifare al Sud, viste le differenze crescenti con il Nord. Ma bisogna dire che salvo poche meritevoli eccezioni, neanche il Sud sembra spingere sulla questione dei propri porti. l’Italia sembra accecata dalla polvere delle sue questioni interne, che sono minime e risolvibili solo a partire da una dimensione internazionale, non viceversa.

Gentiloni ha detto che “il negoziato tra Cina e Ue è sempre stato un negoziato faticoso”. E’ vero?

L’Europa in realtà in Cina non è mai stata un attore unico. I paesi grandi e piccoli rivaleggiano tra loro per fette di mercato e si mettono e fanno mettere in competizione l’uno con l’altro. I tedeschi dominano gli scambi, e forse pensano che vada bene così. Ma anche tutti gli altri fanno lo stesso. Il risultato è che ogni negoziazione come Ue diventa ostaggio del veto del primo venuto. C’è grande confusione. Tutti, anche i tedeschi, avrebbero bisogno di una dimensione continentale per affrontare oggi e tanto più in futuro la crescita della Cina e dell’Asia. Ma finora questa proiezione non si vede.

Xi Jingping ha detto di considerare l’Italia, insieme alla Spagna, una delle “destinazioni privilegiate per il turismo cinese nei prossimi anni”. Siamo in grado di cogliere questa opportunità?

C’è tanta buona volontà da parte dei singoli italiani, ma in realtà si fa poco in maniera più o meno organizzata. Il paese non può permettersi che una risorsa traino sia senza una testa nazionale e sia invece affidata agli sforzi delle singole regioni. In questo modo la promozione del turismo italiano in Cina è scarsa, erratica. Non basta dire che lo stato deve “fare sistema”, se questo vuol dire mettere gli interessi privati alla mercé di burocrati spesso incompetenti. Lo stato deve offrire servizi, ma questo non fa.

Cosa dovrebbe fare l’Italia adesso?

Serve un piano vero di lungo termine di cosa l’Italia può offrire alla Cina, e seguirne l’implementazione. La Cina è una maratona, ma l’Italia ogni volta sembra ricominciare da zero pensando che sia una corsa di cento metri. Risultato? I ritardi si accumulano.

Ma nello specifico, il governo cosa sbaglia nella pianificazione delle missioni, nell’interlocuzione, nelle strategie?

La Cina e l’Asia avrebbero bisogno di una politica e una strategia. Se non le abbiamo, subiremo quelle altrui, come attualmente le stiamo subendo. I porti, il turismo, l’agroalimentare eccetera sono tutte piste che possono rilanciare l’Italia. Ma occorre ripartire dal Sud. Si militarizzi il porto di Taranto, per tagliare via le mille polemiche sui lavori e la gestione e poi lo si affidi a Rotterdam, il più grande porto d’Europa interessato a Taranto. In questo modo il Sud e tutta la penisola si aggancerebbero all’Asia ma anche al Nord Europa e all’Atlantico. Che gli abili veneziani, genovesi e triestini vadano al Sud e prendano in mano i servizi portuali. Questo è il vero unico modo per uscire dallo stallo attuale.