L’attuale situazione geopolitica sta rendendo evidente la necessità di rimettere in discussione una serie di organizzazioni internazionali, a partire da un’Onu ormai incapace di affrontare i numerosi conflitti che insanguinano il mondo. Anche la Nato è finita sotto esame, principalmente per le sollecitazioni di Donald Trump ad una maggiore partecipazione finanziaria degli altri membri del Patto. Va aggiunto poi il segnale dato dal primo turno delle presidenziali francesi, dove l’uscita dalla Nato era un punto comune dei programmi di Marine Le Pen e di Jean-Luc Mélenchon, cioè dell’estrema destra e dell’estrema sinistra. Come noto, i due candidati hanno superato il 40 per cento dei consensi e varrebbe forse la pena di porsi qualche domanda.
Il trattato. Sia pure con toni diversi, la stessa richiesta di Trump era stata già fatta in passato dalla precedente amministrazione americana ed è un doveroso richiamo al rispetto degli accordi presi. All’inizio degli anni 2000, gli Stati membri concordarono di riservare il 2 per cento del Pil al bilancio della difesa, una percentuale che, come rileva un dettagliato articolo di Occhi della Guerra, rappresenta la media della spesa nel periodo tra la fine della Guerra fredda e il 2003. L’articolo citato mette in rilievo come tale spesa per i membri europei dell’Alleanza sia scesa dal 3,3 per cento del periodo 1985-1989 all’1,5 nel 2015, mentre gli Usa spendono il 3,6 per cento del loro Pil. Sotto questo profilo, la richiesta di Trump sembra giustificata.
Le origini della Nato. I trattati vanno senza dubbio rispettati, ma è lecito chiederne la ridiscussione di fronte al cambiamento delle situazioni che li hanno originati. Il Trattato Nord Atlantico fu firmato nell’aprile del 1949 da 10 Paesi dell’Europa Occidentale più Stati Uniti e Canada, come alleanza militare puramente difensiva di fronte a possibili attacchi dell’Unione Sovietica. L’Urss rispose con la creazione nel 1955 dell’analogo e contrapposto Patto di Varsavia con 7 degli Stati suoi satelliti, compresa la Germania Orientale, la Germania Occidentale aveva poco prima aderito alla Nato. Il Patto di Varsavia venne sciolto nel luglio del 1991 e attualmente tutti i suoi membri fanno parte della Nato, ad eccezione ovviamente della Russia. Quest’ultima, insieme a 11 ex repubbliche sovietiche, partecipa però al Partenariato Euro-Atlantico promosso dall’Alleanza. In questa luce, sembrerebbero quindi venute a mancare le motivazioni alla base della costituzione della Nato.
La Nato dopo la fine della Guerra fredda. La Nato ha cominciato a partecipare ad operazioni belliche solo dopo il dissolvimento del Patto di Varsavia, intervenendo in Bosnia nel 1995 e in Kosovo nel 1999. Gli interventi sono continuati con l’invasione dell’Afghanistan nel 2001, con la seconda guerra del Golfo nel 2003 e con l’attacco alla Libia del 2011, concluso sotto l’egida Nato. Per la guerra contro l’Iraq, dopo l’attacco alla Torri Gemelle, gli Stati Uniti invocarono l’articolo 5 del Trattato, che prevede l’intervento dell’Organizzazione in caso di aggressione a uno degli Stati membri. Gli altri interventi sembrano aver poco a che fare con la natura difensiva del Patto e pongono problemi sull’attuale funzione della Nato.
Attuale situazione. Negli ultimi anni la Nato sembra essere tornata alle origini, con la Federazione Russa al posto dell’Unione Sovietica, spinta dalle preoccupazioni di Stati come le repubbliche baltiche e la Polonia per possibili attacchi russi. Ciò ha comportato e comporta spiegamenti di forze Nato alle frontiere con la Russia, che risponde con ancor più cospicui dispiegamenti di militari sui propri confini. C’è da sperare che si tratti di manovre dimostrative, perché uno scontro diretto tra militari Nato e russi porterebbe a una guerra con alte probabilità di precipitare in un disastro nucleare. E ciò dovrebbe essere un forte deterrente sia per Trump e la Nato, sia per Putin. Quest’ultimo potrebbe continuare a condizionare i tre Stati baltici utilizzando i rapporti non del tutto sereni dei loro governi con le consistenti minoranze russofone. Una ripetizione sul Baltico della guerra interna ucraina porterebbe, pur su tempi più lunghi, a uno scontro diretto come nello scenario precedentemente descritto.
Medice cura te ipsum. La Nato, accanto ai problemi al suo esterno, farebbe bene a occuparsi di quelli al suo interno, che non riguardano solo le quote finanziarie. Basti pensare ai problemi che sta ponendo l’involuzione in atto in un membro non marginale come la Turchia. In discussione non è solo la politica di Ankara in Siria e in Iraq, ma la irrisolta questione di Cipro, la cui entrata nella Nato è bloccata dal contrasto tra Turchia e Grecia, entrambi membri del Patto Atlantico. Anche l’entrata nella Nato della Macedonia è bloccata dalla Grecia, per l’annosa disputa sul nome dello Stato ex jugoslavo. La Grecia ritiene che il nome debba essere riservato alla sua regione omonima e la repubblica macedone è costretta a un ridicolo nome ufficiale: FYROM, Former Yugoslav Republic of Macedonia. Forse non è sorprendente che la Grecia, malgrado la sua gravissima crisi economica, sia nel gruppo dei cinque membri europei della Nato che dedicano più del 2 per cento del loro Pil alle spese militari. Forse più sorprendente può essere che un quarto delle importazioni di armi della Grecia provenga dalla Germania, la stessa che fa la faccia feroce verso i greci “scialacquatori”.
Cui prodest. La frase precedente porta a una facile conclusione: la situazione descritta conviene ai produttori di armamenti, statunitensi, ma non solo. Questa risposta non esaurisce probabilmente l’intera problematica, ma non vi è dubbio che l’ampliamento dei mercati interni ai Paesi Nato darebbe nuovi sbocchi all’industria accanto a quelli, peraltro apparentemente non saturi, del Medio Oriente e dell’Africa. Un ampliamento che sarebbe molto meno sottoposto a critiche morali rispetto agli altri citati.