Il programma della visita di Donald Trump prevede oggi la sua tappa in Palestina. A Betlemme, ancora una volta. Il sistema di sicurezza che l’autorità palestinese metterà in piedi non sarà dissimile dai precedenti, organizzati per altri presidenti americani. Praticamente tutte le strade di Betlemme chiuse al traffico delle auto, vietato il passaggio ai pedoni, scuole ed altri edifici pubblici chiusi. Nessun bagno di folla, niente grida ingiuriose ma neppure applausi. Ieri c’è stato lo sciopero generale non solo a Betlemme, ma in tutti i territori palestinesi, compresa Gerusalemme est, per ricordare e sostenere un altro sciopero, quello della fame portato avanti da 36 giorni da un numero sempre più imponente di prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane. 



Negli scontri di ieri con i soldati israeliani, altri 11 feriti palestinesi. Ai 1.300 prigionieri che hanno già aderito allo sciopero si è aggiunto nel frattempo un altro palestinese detenuto nelle carceri israeliane: lo scrittore Ahmad Watamesh, 66 anni, condannato a tre mesi di detenzione amministrativa. Contro quel tipo di detenzione, fuori da ogni processo e che si prolunga per anni, i prigionieri palestinesi sono tornati a protestare e ad usare l’arma dello sciopero della fame. 



Di tutto questo Donald Trump sarà sommariamente informato prima di giungere a Betlemme. Potrà anche, lui ed il suo seguito, riflettere sulle strade deserte che dovrà percorrere prima di raggiungere la residenza del presidente palestinese e poi la Basilica della Natività. Andando via, in direzione di Gerusalemme, Trump dovrà necessariamente vedere Har Homa, una collina ora divisa da Betlemme dal muro di separazione, dove gli israeliani negli ultimi quindici anni hanno tagliato l’antica foresta e costruito una delle più imponenti colonie in territorio palestinese, nuove case per 30mila israeliani.  



Il presidente americano, tuttavia, lo ha già detto in passato. Donald Trump non crede ai piani di pace, alle road map che dovrebbero portare alla soluzione del conflitto tra israeliani e palestinesi. In questo suo viaggio non si proporrà dunque come nuovo mediatore tra le parti, e inviterà, soprattutto nei colloqui privati, Netanyahu e Abu Mazen ad incontrarsi nuovamente.

Chi sia tra i due leader il più forte è facile indovinare. Trump da parte sua ha fatto un invito ad Abu Mazen, mettendo piede a Gerusalemme, a riconoscere i rapporti di forza tra le parti. Per questo è andato, da presidente degli Stati Uniti in carica, con la moglie Melania, la figlia Ivanka ed il genero, l’ebreo ortodosso Jared Kushner, al Muro del Pianto. Un modo per riconoscere nei fatti la sovranità israeliana su Gerusalemme, sull’intera Gerusalemme. Il ministro dell’Educazione e leader del partito dei coloni ebrei Naftali Bennet si è rivolto a Trump con la speranza che “sia il primo presidente che riconosca Gerusalemme unita sotto la sovranità di Israele”. “E’ un’idea” ha risposto sornione Trump, che  preferisce i fatti alle parole. 

E’ toccato ai giovani scout arabi di Gerusalemme ricordare che esistono altre aspettative. Quando la polizia israeliana ha chiesto loro di nascondere le proprie bandiere, compresa quella palestinese, hanno rifiutato ed abbandonato il sagrato della Basilica del Santo Sepolcro, dove erano stati chiamati a fare da corona all’ingresso del presidente Trump.  

Punture di spillo per il gigante mondiale americano e per la potenza regionale israeliana. Anche se si tratta di segnali che, per l’ennesima volta, non vanno sottovalutati. “Abbiamo una chance di arrivare alla pace” ha detto Trump in Israele. Una pace regionale, che dovrebbe congiungere l’Arabia Saudita ed Israele. In un’alleanza per sconfiggere il “nemico” Iran. Il quale, in verità, non sembra accettare il ruolo del cattivo e con la rielezione a presidente del moderato Rouhani e le manifestazioni popolari a suo sostegno, complica non poco la situazione. 

Comunque, in questo quadro, le richieste palestinesi di un accordo di pace (Gerusalemme est, i profughi, i confini) non sembrano godere di sostenitori, né a Washington né a Riyad. Con una minacciosa postilla per gli americani. Nel mondo arabo, anche nella sua storia recente, sono caduti molti dittatori e molti regimi autoritari. L’Arabia Saudita potrebbe non essere il fondamento né della stabilità né della pace in Medio Oriente.