L’attentato di Manchester ripropone per l’ennesima volta il problema della sicurezza nelle aree interne dell’Europa, quelle che sono lontane da qualsiasi scenario di guerra. Lo fa in maniera, se possibile, ancora più dolorosa e oscena di quanto fino ad oggi è accaduto, colpendo ciò che ci è di più caro: i nostri ragazzi, le nostre adolescenti trucidate al concerto di una loro beniamina, probabilmente la più famosa del momento. È abbastanza improbabile — ed anche umanamente insostenibile — che si risolva il problema dichiarando che dobbiamo abituarci a simili nefandezze e che è questo oramai il nuovo scenario con il quale dovremo convivere, esattamente come avviene da decenni in quello mediorientale.
Una tale rassegnazione non è nelle corde della nostra civiltà occidentale. Da diversi secoli abbiamo appreso a reagire al male, in qualunque forma questo si manifesti. Se una simile dichiarazione è dettata dal timore di reazioni a catena che nessuna leadership di governo ritiene di poter gestire, è ovvio che il dovere di ogni Stato è di garantire la sicurezza dei suoi cittadini dentro i propri confini; è questo il suo compito essenziale in base al quale ogni potere costituito ha sempre chiesto e ricevuto la propria legittimazione. Il problema semmai è quello di sapere come e dove intervenire per neutralizzare una tale epidemia di violenza.
I dati del contesto — quelli che noi sociologi guardiamo per primi — ci dicono che l’attentatore suicida aveva 22 anni. Spesso gli attentatori sono molto giovani: così ad esempio, l’italo tunisino fermato alla stazione centrale di Milano dopo aver ferito gli agenti che gli chiedevano i documenti, di anni ne aveva 20; gli assassini di padre Hamel, sgozzato sull’altare della chiesa di Saint Etienne du Rouvray erano anch’essi giovanissimi (19 anni l’uno e addirittura minorenne l’altro). Così come era giovane (24 anni) l’autore della strage di Natale a Berlino. Certamente non sempre è così: l’attentatore di Nizza dello scorso 14 luglio aveva superato da poco i trent’anni e quello della strage di Orlando in Florida di anni ne aveva 29. Tuttavia ciò non toglie nulla alla capacità del delirio terrorista di fare leva sulle personalità più compromesse. Ciò ci obbliga a rintracciare e neutralizzare i predicatori dell’odio, così come ci impone di oscurare i siti dai quali partono i messaggi e le immagini deliranti che viaggiano in rete. Questa diffusione di veleno in rete è intollerabile.
Sempre i dati del contesto ci dicono che l’attentatore è un ragazzo nato in Gran Bretagna, da una coppia fuggita dalla Libia di Gheddafi e residente anch’egli a Manchester. Un immigrato di seconda generazione, proprio come gli attentatori di Charlie Hebdo e quelli del Bataclan. Anche in questo caso esistono eccezioni: a volte i terroristi si manifestano tra gli ultimi arrivati, com’è accaduto in Baviera, dove a rendersi protagonista del tentativo di accoltellamento su di un treno di linea è stato un giovane diciassettenne, rifugiato dall’Afghanistan da poco più di un anno ed affidato ad una famiglia di Wuerzburg.
In un caso come nell’altro dobbiamo porci il problema dell’efficacia reale sia del percorso di integrazione sia di quello di accoglienza, un percorso che, come tutti gli interventi di sistema, va giudicato sulla base della sua efficacia. È giusto e doveroso interrogarci sui risultati di ciò che facciamo e non fermarci al piano della valutazione morale: non basta fare il bene, occorre vedere se questo bene è efficace e va a buon fine, altrimenti è puro auto-compiacimento.
Infine — ultimo passo — occorre chiedersi cosa abbia condotto le autorità inglesi a non attivare i controlli agli ingressi. Una tale misura è oramai applicata ovunque e non si capisce come sia stata possibile una simile leggerezza. Non è la prima volta che ciò accade. Per di più, in questo caso come in molti altri che lo hanno preceduto, si viene a scoprire come l’attentatore fosse già noto ai servizi di sicurezza, ma ciò non gli ha impedito di circolare e di portare a segno i propri obiettivi. Anche qui opera una costante e oramai imperdonabile sottovalutazione della pericolosità dei processi di radicalizzazione.
In pratica la scelta di lasciare liberi i predicatori dell’odio, il non interrogarsi sull’insufficienza quando non addirittura sul carattere contro-producente di certe modalità di accoglienza — si pensi alla tolleranza verso vere e proprie isole islamiche nel cuore delle capitali europee — e di certi modelli di integrazione che tollerano atteggiamenti e comportamenti contrari al nostro codice penale, una volta sommati alla colpevole superficialità verso i processi di adesione all’islam radicale ed all’abbassamento della guardia nei controlli, producono le condizioni affinché un dramma come quello di Manchester diventi reale.
Ma non basta. Fuori dal contesto si possono infatti osservare due processi culturali di largo raggio.
Il primo è costituito da una vera e propria afasia nei confronti delle religioni. A partire dall’inossidabile pregiudizio che continua, ancora oggi, a separare la fede dalla ragione, queste sono situate in una sorta di zona off shore rispetto a quest’ultima, finendo così con il godere di un diritto all’extraterritorialità logica e morale al tempo stesso. Si produce così un “religioso silenzio”, come dice Jean Birnbaum, che impedisce l’accesso a qualsiasi analisi e quindi a qualsiasi comprensione, imbalsamando ogni religione in un universo autoreferenziale nel quale finisce per essere un mondo a parte, estraneo alla ragione. Si finisce così con il trovarsi davanti a un universo che non si conosce e nei confronti del quale non restano a disposizione che prese di posizione puramente reattive: quella del “religioso silenzio” da un lato e della condanna totale dall’altro.
Il secondo processo è invece interno alle religioni stesse ed è costituito dalla sconcertante ignoranza — la santa ignoranza come la definisce Olivier Roy — in base alla quale le religioni, deprivate della loro base culturale, sussistono a livello puramente emozionale. Ogni processo di sottoscrizione e di “radicalizzazione” può quindi realizzarsi in tempi assolutamente inediti. La rapidità di tante conversioni è pari solo alla violenza che le militanze che vi fanno seguito finiscono con il sottoscrivere.
Tanto il primo quanto il secondo processo sono paralleli ad un profluvio di banalizzazioni storiche e di superficialità analitiche che, manifestandosi anche in ambienti che, per potenzialità intellettuali, dovrebbero esserne esenti, crea il terreno dentro il quale i deliri mistico-omicidi del reclutatore e del radicalizzato di turno trovano piena libertà di circolazione.
Così, è nell’indifferenza di un universo appiattito sul presente, inconsapevole delle proprie eredità culturali, che le derive personali di una ragione mai realmente esercitata, diventano preda dell’ideologia assoluta del crimine religioso, trovando in questo un nuovo narcotico, tanto efficiente quanto devastante.