Donald Trump, rientrato negli Usa dopo il lungo tour fra Medio Oriente ed Europa, ritrova alla Casa Bianca tutte le tensioni legate al Russiagate, ma soprattutto i dossier-riforma più pesanti: quello fiscale in testa. La nuova amministrazione ha promesso di alleggerire il carico fiscale per tutti i cittadini americani: argomento certamente tradizionale nella politica economica del partito repubblicano. Ma nella “terra di nessuno” dell’America trumpiana neppure questo sembra garantire una percorso ragionevolmente sgombra di ostacoli, pure in un Congresso controllato dal GOP.



Praticamente in partenza per l’Arabia Saudita e il G7, il presidente ha presentato le sue linee di budget federale 2018: imperniate soprattutto su tagli di spesa in settori politicamente sensibili (Medicaid, protezione ambientale, agenzie per il lavoro, trasporti, etc) anche al fine di finanziare maggiormente la spesa militare (sicurezza interna ed esterna). Il progetto è stato subito subissato di critiche: anche da parte repubblicana e non solo dal sostanziale ostruzionismo democratico al presidente. E questo ha subito allungato nuove ombre sulla più ambiziosa manovra messa in cantiere dalla Casa Bianca. Il cui impianto, in ogni caso, resta su tutti i tavoli di Washington.



Il “fiscal compact” di Trump si appoggia anzitutto su una massiccia semplificazione degli scaglioni d’imposta sul reddito; le aliquote passeranno dalle sette attuali (dal 39,6% a 10%) a tre soltanto (35%, 25% e 15%). E’ evidente l’obiettivo di stimolare/premiare la classe media – soprattutto in termini di consumi o di investimenti in case – trasmettendo un impulso positivo generale all’intero sistema economico-finanziario. I critici, naturalmente, hanno subito obiettato che non è immediatamente chiaro quanti contribuenti pagherebbero “meno tasse” e quale invece sarebbe il contro-impatto dei redditi colpiti da aliquote in aumento.



Altro caposaldo del progetto di riforma è la totale eliminazione dell’imposta di successione, che oggi prevede prelievi fino al 40 per cento. Nella “Trumponomics” si tratta di un provvedimento scontato: è ingiusto colpire una ricchezza che è già stata tassata durante la vita di chi la ha costruita per trasmetterla intatta ai suoi eredi. E’ un articolo di civiltà economica radicato in molta tradizione americana: Trump per primo, tuttavia, non può dimenticare di essere stato eletto da milioni di cittadini poveri e “dimenticati”, all’estremo opposto dei ricchi come il tycoon newyorchese, quelli che lasciano ingenti fortune ai figli.

L’eliminazione della deducibilità delle spese – mantenendola tuttavia per gli interessi sui debiti e sulle sulle donazioni in beneficienza. – è un altro punto della riforma a rischio-accusa di fake. Sulla carta la misura penalizza i contribuenti più abbienti. Ma il “diavolo nel dettaglio” – naturalmente a detta degli avversari – è la riserva mantenuta sulla deducibilità degli interessi: un classico delle mega-acquisizioni a leva finanziaria divenute famigerate e simboliche durante e dopo l’ultimo collasso di Wall Street.

Uno snodo complesso da leggere appare anche l’introduzione di una tassa di rimpatrio sui profitti esteri e una forte riduzione del livello massimo di corporate tax, il prelievo sui profitti aziendali (dal 35% al 15%). Siamo nel cuore della Corporate America: quella Old che Trump vuole rilanciare per ricreare posti di lavoro; e quella New, che negli ultimi vent’anni ha riaffermato il primato tecnologico e finanziario degli States. La nuova amministrazione vuole ridare benzina al Midwest industriale (decisivo alle alle presidenziali di novembre) e lanciare segnali distensivi anche alla Silicon Valley. Soprattutto qui, nella tana di Google, Apple e Facebook, Trump è antropologicamente impopolare: e non è un caso che proprio Mark Zuckerberg stia valutando una possibile candidatura “neo-obamiana” per il 2020. Più in profondità – e con ben altro spessore problematico – l’ormai totale osmosi fra piattaforme digitali e “sicurezza nazionale” rende impossibile a qualsiasi inquilino della Casa Bianca giocare contro i giganti californiani. Ne sa già molto lo stesso Trump, che ha forse vinto grazie all’uso illegale di un server da parte di Hillary Clinton, ma ora si trova immerso in una palude di intercettazioni di intelligence. Un maxi-condono fiscale ai gestori della Rete male non può fare: tanto più che Google & C sono nel mirino fiscale sull’altro lato dell’Atlantico. Ma l’intera partita è appena iniziata: e si annuncia decisiva per il consolidamento del trumpismo “nascente”.