Se non è dato sapere cosa uscirà dal secondo turno delle elezioni francesi di oggi – anche se i sondaggi qualche indicazione piuttosto chiara sembrano darla – c’è un dato che è emerso con chiarezza dalla tornata elettorale dello scorso 23 aprile. E cioè che il sistema politico francese non c’è più.



La distribuzione dei consensi tra i vari candidati, unico modo per avere una fotografia delle divaricazioni interne all’elettorato, ci consegna uno scenario in cui sono presenti quattro formazioni che oscillano tutte – punto più, punto meno – attorno al 20 per cento. Qualcosa di più ha preso Macron, qualcosa di meno ha preso Le Pen, ma a segnare il distacco tra la Le Pen e il partito neogollista di Fillon c’è uno scarto di 2 o 3 punti percentuali.



Quel che è certo, insomma, è che i neogollisti per la prima volta non vanno al ballottaggio e i socialisti hanno avuto percentuali da diritto di tribuna. In altre parole, i partiti che si sono alternati alla guida della Francia dai tempi della Quinta Repubblica o sono scomparsi (i socialisti) o sono marginalizzati (i neogollisti). Al loro posto stanno i due candidati presenti al ballottaggio e le loro formazioni.

Se, però, si passa ad analizzare la struttura di queste formazioni, si scopre che da una parte sta un partito movimentista e revanscista con un retroterra nella (per noi) strana tradizione della destra francese; dall’altra sta un partito di plastica che, più che un partito, è un comitato elettorale costruito attorno alle esigenze di un candidato pescato dalla dirigenza del vecchio partito socialista e fabbricato in laboratorio nel giro di qualche mese da spin doctors ed esperti di comunicazione. Insomma, l’ascesa di Macron nella Francia degli ultimi mesi è la conferma, se mai ce ne fosse stato bisogno, che, come c’è una tecnica per il democracy building, allo stesso modo c’è una tecnica per il political party building.



In Italia non ce ne dovremmo stupire. La creazione, quasi 25 anni fa, nel 1994, di un partito di plastica (il cosiddetto partito-azienda) che, nel giro di pochi mesi, potesse raccogliere su di sé il lascito di voti della Prima Repubblica ha fatto scuola. Il punto è che la stranezza italiana è diventata comune in Europa. 

Non è tanto l’adozione di tecniche di marketing e di spin a segnare questa esperienza. Tutte le formazioni politiche operano secondo questi meccanismi. E questi meccanismi non sono altro che l’aggiornamento della vecchia propaganda politica. 

Se però si osserva che il partito di plastica in Italia è nato dalla dissoluzione di un sistema politico (il sistema politico della Prima Repubblica) ci si rende conto che il sorgere in Francia del partito di plastica – e la sua probabile affermazione – è contestuale alla dissoluzione del sistema politico che si è sedimentato dai tempi di De Gaulle.

Non credo che le similitudini tra le due situazioni possano spingersi oltre. La Francia del 2017 non è l’Italia del 1994. E Berlusconi non è Macron. Quel che è certo, però, è che, in entrambi i casi, alla dissoluzione di un sistema politico corrisponde la comparsa dei partiti fabbricati in laboratorio (da chi non si capisce bene). A cui fa riscontro l’eclissi delle vecchie formazioni e del relativo personale politico.

Ora, questo dato – la frammentazione del sistema politico francese – se collocato in un contesto istituzionale diverso genererebbe una situazione anche peggiore di quella italiana, dove ad affrontarsi sono, in questo momento, tre formazioni politiche pressoché equivalenti in termini di consenso. Il che spiega di per sé perché, in Italia, la scelta sul sistema elettorale si presenti, per queste tre formazioni, come un gioco di vita o di morte. 

In Francia ora le formazioni politiche, staccate tra loro di una incollatura, sono quattro. Non c’è dubbio che il sistema francese del ballottaggio stasera possa indicare – ed indicherà – con certezza chi sarà il prossimo presidente della Repubblica (il Monarca repubblicano).

Ma, allo stesso modo ci sono pochi dubbi che questo monarca non avrà vita facile. Ciò che è restato spesso sullo sfondo delle diverse analisi che in queste settimane si sono succedute sul voto francese è che, nella logica del sistema istituzionale della Quinta Repubblica, il Monarca regna, ma deve governare attraverso un Primo Ministro. E questo Primo Ministro deve avere la maggioranza in quell’Assemblea nazionale per la quale si va a votare a giugno, dopo qualche settimana dal doppio voto sulle presidenziali.

Sostenere che il partito di plastica di Macron possa avere, in caso di vittoria del suo candidato, lo stesso esito alle legislative di giugno sarebbe un azzardo. Così come sarebbe un azzardo immaginare che una Le Pen vincente contro ogni pronostico possa anche conquistare la maggioranza in Assemblea.

In passato la Quinta Repubblica ha conosciuto casi limitati di coabitazione tra Presidenti e maggioranze parlamentari di orientamenti politici diversi, ma allora la logica del sistema era una logica bipolare: gollisti contro socialisti, con il Front National a fare da terzo incomodo (un terzo incomodo che si è fatto sempre più ingombrante). La situazione più probabile è che chiunque vinca le presidenziali si trovi, nel volgere di qualche settimana, a dover governare attraverso una coalizione di cui faranno parte forze eterogenee tra di loro. E che competeranno, per tutta la durata della legislatura, al fine di guadagnarsi un consenso per le prossime presidenziali. 

Non sarà una soluzione da Quarta Repubblica, ma l’instabilità e la contrattazione all’interno della coalizione saranno, plausibilmente, le cifre dominanti dell’azione del prossimo governo francese.

Il dato preoccupante è che in Francia tanto il sistema istituzionale, quanto il sistema elettorale sono progettati per esprimere comunque un vincitore e mandare in sottorappresentazione le formazioni politiche soccombenti. La sottorappresentazione delle forze politiche, però, è pericolosa in un contesto socialmente difficile come l’attuale in Francia, in cui problemi di ordine pubblico si sommano a problemi di ordine economico e sociale: basti pensare all’accoglienza riservata all’ultima riforma del lavoro del Governo.

Ed è pericolosa perché, in un sistema politico frammentato come quello che è emerso solo due settimane fa, produrre un’autorità quale che sia, senza una reale base di consenso all’interno del paese, può generare un’instabilità sociale che è l’esatto corrispettivo della artificiale stabilità istituzionale che la Costituzione della Quinta Repubblica è stata progettata per realizzare. 

Il rischio, insomma, è che le prossime presidenziali francesi si tengano in un clima politico ed istituzionale molto diverso da quello attuale. E che queste, per quanto anomale, siano le ultime elezioni francesi a svolgersi secondo le linee, stabili e sedimentate, che conosciamo. 

Le variabili in gioco sono molte e sono tutt’altro che prevedibili nella loro evoluzione. Però è difficile che un sistema istituzionale sopravviva immutato alla dissoluzione del sistema politico che lo ha generato.