Il recente articolo di Mauro Bottarelli sullo scontro tra Stati Uniti e Corea del Nord offre un ottimo spunto per ulteriori riflessioni. La politica estera di Donald Trump viene definita da molti osservatori “volatile” o decisamente contraddittoria, frutto dei discutibili aspetti caratteriali e della impreparazione del nuovo presidente. Una tesi che sarebbe comprovata dagli ondivaghi atteggiamenti nei confronti del dittatore nordcoreano o dai voltafaccia verso Assad o Putin.
Si può tuttavia avanzare un’altra ipotesi, coerente con la logica che sembrerebbe guidare Trump: un’America sufficientemente grande per bastare a se stessa ed esercitare un ruolo autorevole, pur distaccato, sul resto del mondo. Retorica, populismo, utopia? Può darsi, ma anche questa concezione fa parte della storia degli Stati Uniti ed è colpa degli europei con le loro due guerre interne divenute presto mondiali se ha preso il sopravvento l’altra concezione degli Stati Uniti guardiani del mondo.
Per quanto è dato capire, la concezione di Trump non è strettamente isolazionista, ma ha al suo centro l’eliminazione di ogni seria minaccia esterna alla sicurezza del Paese. In questa prospettiva, è plausibile la lettura che dà Bottarelli alla crisi nordcoreana, per la quale parlerei di recita a soggetto, piuttosto che di pantomima, con personaggi e trame tratteggiate a grandi linee, ma poi affidate all’improvvisazione degli attori. Qui però non si rischiano battute sbagliate, bensì disastrosi incidenti.
La Corea del Nord è sempre stata utilizzata dalla Cina Popolare come un’arma puntata verso l’Occidente e gli altri Paesi della regione, ma ora la sua politica sembra essere cambiata. Il dittatore di Pyongyang è diventato un rischio anche per la Cina, per di più inutile, essendo ormai indiscutibile il suo ruolo di potenza alternativa a quella statunitense, grazie anche alla politica antirussa di Obama e Clinton. E’quindi credibile che Pechino si appresti, come scrive Bottarelli, a eliminare Kim Jong-un e a trasformare la Corea del Nord in un diretto “satellite”. Un’operazione comunque non priva di costi e Pechino presenterà il suo conto: a fronte del “salvataggio” della pace mondiale, gli Stati Uniti accetteranno la richiesta della Cina che la questione dei suoi insediamenti nel Mar Cinese Meridionale vengano risolti tra i Paesi dell’area, senza interferenze degli Stati Uniti. E Trump dovrà, almeno formalmente, raffreddare la sua amicizia con il nuovo governo di Taiwan. Ciò che verrebbe a delinearsi sarebbe una specie di patto di Yalta del Pacifico, con la partecipazione della Russia: i vari Stati si schiererebbero con una delle grandi potenze coinvolte e alcuni potrebbero rimanere “non allineati”, come durante la Guerra fredda. Un ruolo adatto per esempio ad un’altra potenza in crescita nella regione, l’India.
Bottarelli cita anche l’Iran e il suo appoggio ai programmi nucleari di Pyongyang, da cui il forte contrasto di Trump con Teheran, originato peraltro dalla contesa interna con Obama. Trump sa bene che l’Iran ha il supporto, oltre che della Russia, anche della Cina e dovrà essere incluso nello scenario sopra descritto, ammesso che si realizzi. In Medio Oriente la Cina gioca, per così dire, nelle retrovie ma in parallelo con la Russia, protagonista inevitabile di ogni possibile ipotesi di soluzione dei conflitti in corso. L’ultima prova viene dagli accordi raggiunti, e si spera attuabili, negli ultimi giorni in Kazakistan sulla costituzione di quattro zone demilitarizzate in Siria. Uno dei punti principali del programma di Trump è la lotta al terrorismo e sotto questo profilo l’Iran non è certamente peggiore degli alleati di ferro di Obama, Arabia Saudita, Qatar e simili.
L’accordo in Kazakistan è stato raggiunto con il consenso di Ankara, insieme a quello di Teheran, ma alcune recenti dichiarazioni di un esponente turco hanno riproposto il problema della Turchia. Un consigliere di Erdogan, Ilnur Cevik, ha accusato gli Stati Uniti di appoggiare i terroristi, con riferimento alle milizie curde armate e appoggiate in Siria dagli americani. Cevik ha lasciato intendere che i soldati americani che cooperano con i curdi potrebbero essere coinvolti nei bombardamenti dell’aviazione turca, aprendo così l’allarmante quadro di uno scontro tra membri della Nato.
Si giunge così all’altro fronte aperto da Trump, la Nato, che non riguarda solo il problema dei finanziamenti. Sotto la presidenza di Obama la Nato ha assunto sempre più un connotato antirusso, fornendo così al Cremlino un utile strumento di propaganda, sempre efficace in Russia, quello dell’accerchiamento. A quanto pare, Trump non considera la Russia una minaccia per gli Stati Uniti, quindi, se gli europei considerano la Russia un pericolo, siano loro a farsene carico. Trump si mostra anche molto diffidente verso l’Unione Europea, in ciò facilitato dalle discordie interne all’Unione. Nonostante la retorica delle istituzioni europee, in politica estera ciascuno fa per sé, anche ai danni di altri Stati europei, come dimostra la Libia. La probabile uscita del Regno Unito rafforzerà il distacco tra Ue e Usa e sarà un ulteriore problema per la Nato.
Fantapolitica? Può darsi, ma per chi può solo scrivere o leggere, senza poter intervenire operativamente, la fantapolitica rimane preferibile al “noir” della catastrofe nucleare.