Cui prodest? A chi serve lo scontro  in atto sul Qatar, a parte ai Paesi del Golfo che lo hanno provocato? Difficile dire, gli interessi coinvolti sono numerosi e incrociati in un groviglio non facile da districare, tanto da rendere incerto anche il vantaggio che da questa prova di forza potranno ricavare Arabia Saudita e compagni di cordata. 



Questo conflitto può essere gradito a Israele, come in generale ogni crisi in campo arabo, tanto più che qui sono sotto tiro due suoi tradizionali nemici: Iran e Hamas. Sciita uno, sunnita l’altra, entrambi sono però su posizioni nettamente avverse allo Stato di Israele. Ritorna così sotto i riflettori la questione palestinese, la cui soluzione sembra allontanarsi sempre di più. L’attuale governo israeliano ha forti responsabilità per la sua aggressiva politica sugli insediamenti e la sostanziale messa in mora dell’ipotesi dei  “due Stati”. Sono altrettanto gravi, tuttavia, le responsabilità dei palestinesi, estremamente divisi tra loro, con Hamas ormai ben lontana dal laico movimento di liberazione della Palestina, ristretto ora all’Olp dei Territori, peraltro molto diviso al suo interno.



Il Qatar è considerato un sostenitore di Hezbollah, l’organizzazione sciita libanese attiva in Siria a fianco di Assad, altra acerrima nemica di Israele. Sembra tuttavia improbabile che la cessazione dell’appoggio qatarino a Hamas e Hezbollah possa inficiarne definitivamente le capacità di azione, mentre la crisi nel Golfo mette a rischio la fragile stabilità del Libano, già minacciata dal pesante afflusso di profughi. Un pericolo che dovrebbe essere visto come ben maggiore da Israele e dagli altri Stati della regione.

Parere diffuso è che il via all’iniziativa saudita sia stato dato dalle dichiarazioni di Trump in Arabia Saudita, ma appare piuttosto incerto il vantaggio che ne possono trarre gli Stati Uniti. Anche se non sarebbe il primo caso di una base militare americana in un Paese nemico, vedasi Guantanamo a Cuba, non parrebbe utile una replica con la loro importante base presso Doha. Anche su ciò si basa la resistenza del Qatar alle pretese saudite e la richiesta della mediazione proprio di Trump.



D’altra parte, non tutti i Paesi del Golfo sono allineati con Riyadh: Kuwait e Oman non partecipano al blocco e si propongono come mediatori, mediazione offerta perfino dal Pakistan. Per converso, al blocco partecipano le lontane Maldive, il cui unico interesse sembrerebbe quello di preservare i sostanziosi investimenti sauditi nell’arcipelago. Chi invece si è chiaramente schierato a fianco del Qatar è la Turchia, che sta cercando di sostituire Arabia Saudita e altri Paesi del Golfo nei rifornimenti alimentari alla penisola e che ha ventilato l’invio di militari a protezione del governo di al-Thani.

Questo ulteriore strappo della Turchia, se ha un senso nella competizione locale e tenendo conto del suo supporto a Fratelli musulmani e Hamas, acquista un altro significato a livello globale. La Turchia è membro della Nato, ma la sua posizione si è rivelata spesso ambigua nei confronti dell’Isis e di altri movimenti jihadisti e ha finora condotto una politica non allineata con quella degli Stati Uniti e dell’Europa. Ciò è stato facilitato dalla confusa politica estera di Obama e viene ora portato alla luce da quella di Trump, molto più netta ma con obiettivi ancora non ben identificabili.

Venendo poi all’Egitto, non appaiono particolari interessi comuni con i sauditi, se non l’inimicizia per la Fratellanza musulmana. Il regime militare di al Sisi ha da guadagnare comunque dalla vicenda, che lo proietta al centro della questione Mediorientale, nella quale è storicamente avversario della Turchia. Un primo successo mediatico è arrivato con l’iscrizione  della Libia al blocco contro il Qatar, perché l’adesione non è del governo di Tripoli, riconosciuto dalla comunità internazionale, ma di quello di Tobruk sostenuto dal Cairo.

Questo gioco di specchi deformanti rende sempre meno evidente il beneficio che può derivare agli Stati Uniti e anche al suo Presidente, sempre più sotto accusa in Patria per quello che è ormai diventato mediaticamente il Russiagate.  

Proprio la Russia sembrerebbe il maggior beneficiario della situazione, tenendo presente la fredda abilità del giocatore che la governa. Putin ha in effetti diversi tavoli su cui giocare e può inserirsi nei vari fronti aperti nella regione. L’unico coinvolgimento diretto di Mosca è in Siria a fianco di Assad, ma è un intervento coerente a fronte di quello, diciamo così, “multiforme ” degli Usa. I rapporti con l’Iran sono stretti e quelli piuttosto ondivaghi con la Turchia potrebbero, in questo nuovo scenario, stabilizzarsi in funzione antioccidentale. Aiutato dalla insensata politica sanzionatoria dell’Europa nei confronti della Russia, ma soprattutto della Siria, come illustra l’articolo di Patrizio Ricci. Si può inoltre ritenere che l’adesione dell’Egitto al blocco anti Qatar non sia sufficiente ad interrompere la marcia di avvicinamento tra il Cairo e Mosca, entrambi vicini al libico generale Haftar e a Tobruk. Ovviamente, stiamo parlando del Medio Oriente e il gioco degli specchi può essere molto deformante anche, o soprattutto, per i tentativi di analisi.