Ci sono libri che nascono dall’amore, altri dalla fantasia, altri ancora dal coraggio. A quest’ultima categoria appartiene senz’altro quello della giornalista Rai Christiana Ruggeri, corrispondente estera. Perché denuncia una situazione orrenda nel caos che regna in Venezuela. Quella delle carceri, succursali di un inferno al di fuori di ogni controllo dove svolge la sua opera da diciotto anni una suora, Leida Rojas, dell’Ordine delle Mercedarie, che non solo è l’unica persona ad averne accesso come un moderno Caronte, ma, nella sua funzione di vita e speranza, nel carcere di San Juan de los Morros, salva quotidianamente vite umane. Per Christiana è stata una guida importantissima che le ha permesso di far venire alla luce questo dramma che il mondo ignora, tutto immerso tra la condanna e la giustificazione di un regime che sta portando il Venezuela alla guerra civile per fame. L’abbiamo intervistata in questi giorni a Roma, poco prima della presentazione del suo libro “I dannati”, edito da Infinito, che rivela al mondo questo ennesimo orrore.



Cosa l’ha attirata a occuparsi non solo del Venezuela, ma di questa situazione particolare?

È stato un caso. Sono andata in Venezuela un anno fa ed è un Paese che, nonostante la grave crisi che già si viveva, mi è piaciuto tantissimo, soprattutto le persone: sorridenti, autentiche, vere! Ho potuto così scoprire la storia di una suora e, approfondendola, mi sono trovata in questo mondo infernale, nel quale Leida Rojas, che viene soprannominata “la goccia bianca”, porta una parola di speranza e si adopera in mille modi per salvare vite umane o farle nascere, vista anche la promiscuità che vigeva nelle carceri fino a poco tempo fa. Tra lei e il mondo che frequenta, i carcerati della Penitenciaria General de Venezuela, c’è ovviamente un abisso, ma Leida è stata il mio riferimento per conoscere questa succursale dell’inferno rappresentata da almeno 28 delle 34 carceri presenti nel Paese.



Ma lo Stato non esercita un controllo?

Nella maggior parte mi sento di dire che non sono controllate. E mi spiego meglio: le carceri della Penitenciaria non hanno guardie all’interno. Solo all’esterno di un perimetro elettrificato, perché l’interno è praticamente un fortino dove succede di tutto da almeno vent’anni, quindi dal secondo periodo di Chaves fino a tutto Maduro. Tutti sono al corrente di questa situazione, ma non fanno nulla per cambiarla. Perché innanzitutto sono dei luoghi protetti per i capi dei cartelli del narcotraffico che, pare assurdo, si sentono sicuri in quel perimetro più che se fossero messi in libertà: non a caso i “pranes”, così li chiamano, una volta rimessi in libertà vengono “casualmente” uccisi in situazioni mai chiare da parte della Polizia Bolivariana. Nelle carceri i narco si rimettono in sesto e ricominciano a controllare i propri traffici, siano essi nazionali o internazionali con gli Usa e con l’Europa, oltre che organizzare delitti. Io mi sono occupata in particolar modo del penitenziario situato a San Juan de los Morros, definito da Humberto Prado, uno dei più grandi difensori dei diritti in Venezuela, l’università del delitto.



Che situazioni si sviluppano all’interno delle carceri?

La vita lì è un inferno: nel mio libro mi riferisco soprattutto ai condannati per delitti comuni, perché ovviamente lì dentro di diritti umani non se ne parla. Quindi non sono assicurati, nonostante la Ministra del sistema carcerario, Iris Varela, stia facendo qualcosa soprattutto sul loro sovraffollamento, a livelli incredibili. Parliamo di carceri per 700 persone con 4000 detenuti. Oltre a ciò l’anarchia completa, o il controllo dei boss, provoca omicidi su vasta scala: i cadaveri sono poi seppelliti in terreni all’interno dell’area carceraria e in questi anni si sono scoperte diverse fosse comuni. Già nel 2009 le Nazioni Unite avevano denunciato la situazione. Inoltre, cosa impensabile, all’interno delle carceri i narcotrafficanti hanno la possibilità di dialogare all’esterno attraverso internet e i social network, con i quali possono mettersi in contatto con chiunque.

Ma come fa uno Stato che a parole dice di difendere i diritti umani a permettere che esistano questi lager?

Semplicemente perché la stampa non ne parla. Solo pochi giornalisti locali denunciano la situazione, peraltro inascoltati. I capi narco sono tranquilli e si sentono protetti all’interno delle carceri. Dal momento che la polizia uccide esponenti politici davanti alle telecamere delle strade senza nessuna conseguenza, mi pare che la situazione in Venezuela sia tragica e chiarissima allo stesso tempo. Nel mio libro mi concentro soprattutto sulle storie di detenuti comuni, che muoiono uccisi anche a causa della tubercolosi per mancanza di medicinali. Oppure si fanno di crack e si avvolgono dentro delle amache sospese dove almeno non sentono l’odore delle feci, urina e quant’altro improvvisando dei bozzoli dove non saranno mai farfalle senza soffrire né la fame, né il sonno per effetto delle droghe, e questo provoca una morte lenta. Tanto sono soli, nessuno li va a trovare e senza soldi per pagare il pizzo di 2500 Bolivares per non essere ammazzati. Chi anche solo ruba un orologio rischia di essere ucciso squartato vivo là dentro. Ciò descrive ancor di più la tragedia di un Paese, che proprio in nome dei diritti umani deve essere raccontata.

È l’unica ad averlo fatto? Secondo lei come il Venezuela può uscire da questo dramma: è auspicabile un intervento più deciso del Vaticano, che finora diplomaticamente non è riuscito purtroppo, come l’intera diplomazia internazionale, a fare molto…

Della storia che descrivo se ne è occupata solo la Bbc. Secondo me la situazione del Venezuela è molto chiara: il ChaveMadurismo è morto e il Paese deve essere riportato alla legalità il più presto possibile. Mi auguro che il Papa faccia in Venezuela quello che gli è riuscito benissimo con Cuba, visti anche i rapporti di quest’ultima con il Governo Bolivariano: un “copia incolla” non mi dispiacerebbe. Racconto poi un aneddoto significativo: di recente le suore si sono rivolte a YouTube per poter trovare farina con la quale preparare le ostie, e questo la dice lunga su come i venezuelani non sappiano più a chi rivolgersi. Non hanno più dei referenti: se uno Stato non si accorge che il suo popolo non sa più a chi rivolgersi, allora qualcuno deve poterglielo far capire. Le Nazioni Unite, sebbene debbano essere ricostruite, in questo momento sono le uniche che, a livello sovranazionale, possono dire una parola.

(Arturo Illia)