Anche se l’occidente ne continua a chiedere la destituzione, Assad c’entra ben poco con la continuazione della guerra siriana: Donald Trump durante il suo viaggio a Ryad, ha indicato l’Iran e non Assad come causa principale del terrorismo mondiale e dell’instabilità regionale. Il presidente americano, in tale occasione, ha anche detto che gli Stati Uniti intendono rafforzare la propria presenza in Medio oriente, tramite Arabia Saudita ed Israele. 



Conseguentemente, Teheran è cosciente che sarà il prossimo obiettivo dopo la Siria. L’Iran è ormai consapevole che la guerra siriana è una guerra a tutto campo indirizzata direttamente contro di sé.

Da parte sua, la Russia ha fugato ogni dubbio sulle reali intenzioni degli Stati Uniti; nell’ultimo vertice Nato di fine maggio, il presidente americano ha indicato il terrorismo come principale pericolo globale per l’occidente alla pari della Russia.



In questo contesto, Teheran ha abbandonato ogni indugio ed ha provveduto a inviare in Siria cospicui rinforzi per sostenere l’esercito governativo. Il tentativo è quello di aprire una via sicura che congiunga il proprio territorio con la Siria fino al Mar Mediterraneo: il piano consentirebbe di dare respiro all’alleato siriano e rafforzarlo come potenza regionale.  

In sostanza, l’Iran cerca di impedire, per la propria sopravvivenza, che la Siria graviti sotto l’influenza saudita. Se i piani iraniani riuscissero, la nuova via di facilitazione che congiungerebbe i due paesi partirebbe da Teheran, poi passerebbe in territorio iracheno attraverso Baquba (a nord di Baghdad), quindi salirebbe a nord dell’Iraq a Tal Afar; proseguirebbe quindi in territorio siriano a sud di Deir Ezzor toccando Mayadin per poi raggiungere Deir Ezzor, Damasco ed infine Latakia. Il piano Usa invece consiste nel togliere terreno al controllo amministrativo del governo siriano: il che vuol dire estendere tramite i “gruppi di opposizione” il controllo del territorio da Al-Tanf fino all’Eufrate, e collegare Raqqa distante più di 500 chilometri. 



Il progetto — come abbiamo visto — passa attraverso i raid aerei contro le forze governative in territorio siriano; i tentativi di corruzione dei leader tribali perché transitino dalla parte degli insorti; l’apertura di “corridoi sicuri” per convogliare l’Isis contro l’esercito siriano; il metodico e pianificato addestramento di mercenari reclutati nelle zone tribali desertiche (in modo che fungano da “opposizione moderata” in seno alla Syrian Democratic Force, entità totalmente inventata dagli Usa). 

L’indirizzo che prenderà questo conflitto è incerto; è una vera partita a scacchi che si svolge non solo sul terreno ma anche in seno all’amministrazione americana: infatti, secondo il giornale di politica estera Foreign policy, ad insistere sull’espansione della guerra in Siria a qualsiasi costo (ingaggiando direttamente il conflitto), è principalmente il direttore del Consiglio della Sicurezza Nazionale della Casa Bianca Ezra Cohen-Valtnick e Derek Harvey, consulente della Casa Bianca per il Medio oriente. I due non sono due semplici funzionari ma personaggi di grosso calibro, molto influenti nella politica americana. Il primo in particolare è stato in servizio poco più che trentenne in Afganistan con l’Agenzia di intelligence della Difesa (Dia) coordinando con l’Ufficio Ovale e il Congresso tutte le attività di intelligence. Così in meno di un anno Cohen-Watnick è passato dal grado di capitano a quello di generale a tre stelle: è ovvio che gode di appoggi molto potenti. Derek Harvey invece ha ricoperto il gradi di colonnello ed ha lavorato negli ambienti militari di intelligence in Iraq ed Afganistan. E’ stato nel periodo 2006/2007 uno dei primi sostenitori della politica americana denominata “surge” implementata dal generale David Petreus. Più propenso allo zelo ideologico che alle analisi e forte sostenitore di Arabia Saudita ed Israele,  Harvey è un assertore della linea dura (e per questo ha sostenitori bipartisan al Congresso). A questi personaggi, che influenzano fortemente la politica estera americana, aggiungerei il generale McMaster, Consigliere per la Sicurezza Nazionale della Casa Bianca che è perfettamente allineato alla vision di Cohen Valtnick sull’intervento diretto degli Stati Uniti contro Assad. McMaster ha infatti sintetizzato in modo inesatto i report di intelligence a Trump per coinvolgere gli Stati Uniti in una guerra su scala in Siria (tramite un piano che prevede l’invio di 150mila soldati americani).

A contrapporsi alle politiche portate avanti da questi personaggi, inaspettatamente, è il capo del Pentagono, gen. James Mattis che ritiene la soluzione impraticabile in quando porterebbe ad un confronto diretto con l’Iran che potrebbe rivalersi contro le forze americane in Iraq ed in Siria; secondo tale orientamento, gli Stati Uniti dovrebbero invece concentrarsi sulla distruzione dello stato islamico.  Fortunatamente, la stessa opinione è condivisa anche da alcuni membri dello staff della Casa Bianca e dal generale Joseph Danford, comandante Usa nella coalizione contro il gruppo radicale “stato islamico”, nonché anche da veterani delle forze speciali come generale Joseph Votel.

Le posizioni comunque differiscono tra di loro per considerazioni circa il metodo ma non sugli obiettivi da realizzare a lungo termine: l’indirizzo prevalente della politica estera americana si sta comunque pericolosamente orientando verso le posizioni più oltranziste. In proposito, la recente previsione di spesa presentata al Congresso che il Pentagono dovrà affrontare per soddisfare le esigenze del teatro siriano non lascia adito a dubbi. Le spese che saranno necessarie per tener viva l’insurrezione negli anni 2017 e nel 2018 sono contenuti nel documento “Overseas Contingency Operation – Justification for FY 2018“. Trascurando il Budget destinato alle Forze Armate irachene (del tutto legittimo perché indirizzato ad  uno stato sovrano in guerra contro i terroristi), è alquanto contraddittorio quanto si prevede di spendere per ringalluzzire le forze mercenarie anti-siriane. Nel documento infatti si legge che nel 2017 verranno assegnati dagli Stati Uniti 430 milioni di dollari all’opposizione armata. Le risorse saranno così distribuite: 393,3 milioni di dollari per l’acquisto di armi per l’opposizione armata: di questa cifra nel 2017 saranno stanziati 322,5 milioni di dollari per armi e munizioni, 6,1 milioni andranno per i campi di addestramento, 40 milioni di dollari copriranno i costi di trasporto. Tramite apposito reclutamento si prevede inoltre di aumentare il numero di insorti dell’opposizione siriana “moderata” che attualmente può contare su circa 25mila persone. Tuttavia il documento dice che il loro numero salirà a 30mila persone entro la fine dell’anno fiscale 2018. 

In definitiva, l’obiettivo generale applicato da tutta l’amministrazione Usa è chiaro e condiviso: gli Stati Uniti continueranno la loro guerra contro la Siria con totale noncuranza della volontà del popolo siriano e degli accordi di sospensione delle ostilità sottoscritti nel protocollo d’intesa tra Turchia, Iran e Russia ad Astana.