“Il business è contrariato dalla mossa di Trump sul cambiamento climatico”. Il sito del Financial Times, nell’attesa dell’annuncio giunto in serata del ritiro degli Usa dagli Accordi di Parigi, ha dato molto risalto alle inserzioni pubblicitarie che negli ultimi giorni hanno tentato di frenare lo strappo della Casa Bianca. Intel e Microsoft, Facebook e Apple: tutti i giganti della Silicon Valley e dintorni hanno firmato ennesimi manifesti anti-Trump. Però il leitmotiv che emergeva degli appelli era assai più finanziario che ambientalista: denunciava i rischi per gli ingenti investimenti tecnologici finanziati dal grande private equity globale su energie rinnovabili ed ecosostenibilità.
L’accusa a Trump, al solito, è quella di interrompere una (presunta) narrazione virtuosa che – fra un Barack Obama e un Mark Zuckerberg – continua a tenere assieme un establishment cosmopolita e autonominatosi progressivo: primo della classe all’università ma anche a Wall Street, economicamente performante ma anche socialmente sostenibile su scala planetaria. Perché questo è stato il CP21 siglato nel 2015 a Parigi da Obama e dai capi di altri 194 stati: forse l’apoteosi della globalizzazione politicamente corretta. E’ stata solennizzata l’idea che le acciaierie cinesi e indiane e la Volkswagen e perfino i Big Names californiani (grandi produttori di emissioni) potessero autoregolarsi in modo uniforme e coordinato per raggiungere una riduzione del riscaldamento globale buona in sé per l’intero genere umano.
Ora il presidente “brutto, sporco e cattivo”, sempre poco presentabile sul piano etico ed estetico, ha ricordato che il mondo reale resta inguaribilmente diverso da quello ideale, “migliore”: che la Cina può perfino avocare la guida dell’ambientalismo mondiale contro gli Usa “inquinatori e traditori” (è accaduto ieri) ma basta guardare una webcam di Shanghai in un qualsiasi giorno dell’anno per individuare il fake. Se all’interno dell'”America First” di Trump non è il momento migliore per finanzieri e inventori smart, all’esterno la geopolitica si muove in modo frenetico: e non del tutto “illogico”.
I leader cinesi e il nuovo duumvirato europeo (Angela Merkel ed Emmanuel Macron) ne hanno approfittato per tratteggiare una nuova partnership che parrebbe stringere in una morsa la Russia di Vladimir Putin: il quale ieri è stato abile nell’ennesimo gioco delle parti con Trump, ricordando lui che anche il Patto sul Clima (come tutto o quasi nel mondo) è comunque carta straccia se l’America lo straccia. Per un leader della Casa Bianca dipinto come un pericoloso arruffone anche all’ultimo G7 non è poco. Può non piacere a molti, non senza ragioni: Trump, chiaramente, non ha neppure aperto l’enciclica Laudato si’ che Papa Francesco gli ha regalato una settimana fa a Roma. Un approccio alto e sfidante all’eco-ambientalismo, all’estremo opposto della sbrigativa bocciatura di parametri e target giunta ieri dalla Casa Bianca.
E’ vero invece che gli Accordi di Parigi sono stati spacciati per una bibbia ideologica. Sono invece uno strumento come altri nell’arsenale della competizione politico-economica. Su questo terreno Trump non cambierà mai “narrazione”, anzi insisterà. E gli avversari della sua “America First” – interni ed esterni – faranno lo stesso. Ma non c’è nessun muro a separare i presunti “buoni” dai presunti “cattivi”.