La decisione di Salman bin Abdul-Aziz Al Saud, re dell’Arabia Saudita, di sostituire con uno dei suoi figli l’attuale principe ereditario, Mohammed bin Nayef, porta alcune conseguenze che non si possono confinare alla politica interna saudita. Quando il fondatore dell’attuale Arabia Saudita, Abdul Aziz ibn Saud, morì nel 1953 lasciando 45 figli maschi, la successione venne regolata in base a un principio “orizzontale”, cioè tra i figli maschi del fondatore. In questo modo si evitò la difficile scelta di un singolo ramo in cui rinchiudere verticalmente la successione, che avrebbe potuto scatenare dolorose controversie tra i numerosissimi componenti la famiglia reale. Anche l’attuale re si è mosso inizialmente su questa linea, nominando erede il figlio di un fratello, ma ora ha deciso di passare alla successione diretta, per di più nominando non il primogenito, bensì il settimo dei suoi figli, Mohamed bin Salman. Il sovrano ha 81 anni e pare con incipienti sintomi di demenza senile, il che aggiunge qualche ombra in più sulla sua scelta. Per il momento non vi sono aperte contestazioni, data la struttura autoritaria del regime, ma in futuro questa decisione potrebbe minare l’unità della famiglia e dello stesso Paese.
Le caratteristiche “di rottura” del nuovo principe ereditario sono un altro fattore da considerare, in vista di una sua ascesa al trono non così lontana nel tempo. Un primo elemento è la giovane età, 31 anni contro i 57 del sostituito cugino, e il fatto che, a differenza di bin Nayef, ha compiuto tutti i suoi studi in Arabia Saudita. La popolazione saudita è per un terzo al di sotto dei 35 anni, una fascia di età soggetta ad alti tassi di disoccupazione, finora compensati dal forte sistema assistenziale statale. Il welfare saudita è però seriamente minacciato dalla crisi dei prezzi del petrolio, che ha portato in deficit per la prima volta il bilancio statale e ha intaccato severamente le pur consistenti riserve finanziarie.
Bin Salman si presenta come esponente di una nuova Arabia, moderna ma senza nette rotture con il passato. Il principe ricopre importanti ruoli anche nella gestione dell’economia saudita e uno dei suoi obiettivi dichiarati è passare da un’economia monopolizzata dal petrolio a una economia articolata e liberalizzata, presente anche nei settori di avanguardia. Per incominciare, ha annunciato la messa sul mercato di una quota dell’Aramco, di cui è presidente, la società statale che produce il 10 per cento del petrolio mondiale. Il suo programma è esposto nel documento “Saudi Vision 2030”, che ha provocato qualche mugugno tra i tradizionalisti e suscitato qualche perplessità sulla possibilità di una sua concreta realizzazione.
Serie preoccupazioni derivano invece dalla sua visione della politica estera, di cui sarà il principale artefice, avendo ora aggiunto il ruolo di primo ministro a quello, già determinante, di ministro della Difesa. Bin Nayef era “solo” ministro degli Interni, anche se in questo ruolo aveva inferto un colpo decisivo ad al Qaeda in Arabia, che ha tentato infatti di assassinarlo. Bin Salman è un deciso fautore della sanguinosa guerra che dal 2015 devasta lo Yemen, definita dall’Onu come la peggiore catastrofe umanitaria dal 1945. E’ probabile che alla base vi sia un disastroso errore di valutazione sulle capacità di resistenza degli sciiti Houthi e dei loro alleati sunniti sostenitori di uno dei due presidenti in lizza. Comunque questa guerra è un’altra causa dell’aggravamento della situazione finanziaria saudita.
Bin Salman è inoltre un sostenitore della contrapposizione all’Iran, verso il quale ha anche ipotizzato azioni belliche. Una posizione che parrebbe condivisa da Donald Trump, in coerenza con le sue critiche al trattato sul nucleare iraniano, e che lo ha portato a un sostanziale voltafaccia verso il Qatar, malgrado Doha ospiti una strategica base americana.
Per molti commentatori americani questo connubio tra bin Salman e Trump non appare corrispondere agli interessi degli Stati Uniti e anche nella cerchia del presidente vi sono timori di una pericolosa escalation. Eppure, la situazione in Medio Oriente è già talmente grave da far apparire un’assurdità l’apertura di nuovi fronti. Bin Salman sta utilizzando le contrapposizioni religiose ed etniche presenti nella regione per raggiungere il suo obiettivo di un’Arabia Saudita leader nel Medio Oriente. Da un lato chiama alle armi i sunniti contro gli eretici sciiti, che accusa di voler conquistare i luoghi santi dell’islam, di cui il re saudita è il Custode. Dall’altro, si appella al nazionalismo arabo contro i non arabi, quindi non solo contro l’Iran, ma anche contro la Turchia, cioè le altre due potenze locali tra le quali si gioca la partita.
In questo gioco, Stati Uniti, Regno Unito e Francia sembrano aver scelto Riyadh, la Russia, con la Cina, Teheran e, sia pure con qualche difficoltà, Ankara. Ma siamo in Medio Oriente e qui, più che altrove, le alleanze sono volatili e volubili e “di doman non v’è certezza”. Non è certo, tuttavia, che Trump conosca Lorenzo il Magnifico e hanno forse ragione quei commentatori secondo i quali The Donald si è fatto manipolare dal giovane arabo, cedendo alle sue lusinghe adulatrici. O forse si tratta solo di malevolenze, ma rimane oggettivamente difficile capire il senso della politica americana nella regione. Come nel recente passato, d’altronde.