“Non abbiamo ascoltato l’Italia sull’ondata che stava arrivando” e ora “servono regole comuni Ue sia che si tratti della rotta balcanica sia di quella libica”. Così il neopresidente francese Emmanuel Macron, in tandem, come c’era da immaginare, con la cancelliera tedesca Angela Merkel, ha concluso il Consiglio europeo del 22 e 23 giugno che aveva proprio nella questione migratoria il punto nodale. Parole sante verrebbe da dire se, però, per lo meno al momento, non fossero solo parole, o nella migliore delle ipotesi tardivi mea culpa e buoni propositi.
L’Italia, sottoposta oramai da anni all’arrivo di migranti dalle coste libiche — più di 180mila disperati nel 2016 e un incremento del 30 per cento nei primi mesi del 2017 rispetto all’anno precedente — e lasciata tristemente al suo destino nel tentare di arginare un problema che da sola non può risolvere, sembra, però, non farsi grosse illusioni. Uno sconsolato e pragmatico Gentiloni, per una volta senza peli sulla lingua, a margine del vertice, ha infatti ammesso: “Sappiamo che i problemi non si risolvono con documenti”. Documenti utili a salvare le apparenze ma non a salvare l’Italia e neppure l’Europa, incapace, per lo meno fin qui, di attuare una benché minima politica estera comune.
Perché tanto scetticismo? In primo luogo perché la storia, per quanto recente, è sempre un’ineffabile maestra. Le istituzioni europee si sono mostrate fin qui incapaci di parlare con una sola voce, anteponendo la realpolitik degli interessi nazionali al senso di giustizia comune. La Libia è la cartina al tornasole di queste incoerenze. L’intervento militare del 2011 è stato voluto dalla Francia dell’allora presidente Sarkozy e dal Regno Unito per rovesciare la Jamahiriya di Gheddafi e per mettere le mani sulle risorse del Paese. Davanti all’evidente fallimento, tutti hanno poi cercato di salvare il salvabile alleandosi con gli attori più favorevoli sul terreno. In un secondo momento l’Europa, solo apparentemente coesa, ha mostrato la faccia presentabile in sede Onu, sostenendo gli accordi di Skhirat del dicembre 2015 per l’insediamento del Governo di accordo nazionale di Serraj ma, una volta con i piedi sul terreno, i più hanno disatteso gli impegni presi e hanno sostenuto il generale Haftar. Infine al recente G7 i leader europei, forse più attratti dalla magnifica cornice di Taormina che dalla voglia di trovare un compromesso, hanno raggiunto sui migranti e sulla Libia una “dichiarazione di massima”, che, tradotta, vuole dire un accordo al ribasso per mascherare i disaccordi di fondo, soprattutto con gli Stati Uniti di Donald Trump.
Davanti a un quadro così desolante l’Italia, altamente esposta al caos libico, non poteva che rimboccarsi le maniche. Il ministro dell’interno Minniti si è impegnato per dare vita a una politica di risposta alla crisi migratoria, una strategia tutt’altro che ineccepibile, certo, ma forse da soli non sarebbe stato semplice fare meglio. Il 2 febbraio di quest’anno abbiamo siglato il cosiddetto “accordo sui migranti” con Serraj che però non riesce a controllare neppure Tripoli, figuriamoci le milizie che gestiscono i fiorenti traffici, dal Niger alle coste libiche passando per il Fezzan, santuario di organizzazioni terroristiche e bande criminali in cui, per di più, è in corso una guerra civile. Abbiamo addestrato più di 90 uomini della guardia costiera libica che, però, come denunciato da alcune organizzazioni come Human Rights Watch, non ha fin qui mostrato di avere la capacità di eseguire in modo sicuro le attività di ricerca e salvataggio. Dall’Europa sarebbero dovuti arrivare circa 800 milioni di euro per il piano di supporto ai guardacoste libici, ma al momento vengono utilizzate poche motovedette mal funzionanti.
C’è poi un secondo punto che lascia più di una perplessità. Anche in questo caso bisogna fare un piccolo passo indietro. Quando tra il 2015 e il 2016 la Germania aveva dovuto far fronte a un massiccio afflusso di profughi dalla rotta balcanica, un’Europa unita e determinata non aveva esitato a siglare un accordo a dir poco capestro con la Turchia per il respingimento dei migranti. Un “bell’affare”, verrebbe da dire con un po’ di amaro sarcasmo, che ci è fin qui costato 3 miliardi di euro e ci ha esposti alle bizze del premier turco che minaccia di riaprire i rubinetti. Una tale solerzia da parte europea, però, non c’è mai stata con l’Italia che, tra l’atro, si trova ad affrontare il problema migratorio da molto più tempo rispetto alla Germania ma ha dovuto scontare la politica dei “due pesi due misure”.
E’ questa l’Europa che dovrebbe contribuire a stabilizzare la Libia e aiutarci concretamente a rispondere all’emergenza dei migranti che si riversano sulle nostre coste? Verrebbe da rispondere che se, come scriveva Pier Paolo Pasolini, “bisogna essere molto forti per amare la solitudine”, l’Italia è ben allenata. Resta tuttavia la speranza che stavolta le parole si tramutino davvero in fatti, ma in tempi brevi, perché l’emergenza non è più compatibile con le lungaggini e le indecisioni europee.