“Sarajevo 1914, Doha 2017? Potremmo trovarci in un momento storico simile all’assassinio dell’erede al trono austro-ungarico, che scatenò la Prima Guerra Mondiale”. Così scrive l’editoriale del 7 giugno di un periodico americano solitamente molto sobrio, Foreign Policy. La terza guerra mondiale “a pezzi”, di cui parla spesso Papa Francesco, rischia di convergere su un unico, sanguinoso conflitto?



Si può pensare che Foreign Policy esageri, ma attira l’attenzione su un punto fondamentale: per quanto dolorosi, gli attentati di Londra, Manchester o Parigi sono meno geopoliticamente pericolosi e cruciali di quello che è successo lunedì, quando l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti hanno bloccato l’accesso al proprio spazio di terra, aereo e navale del Qatar, cercando di isolare il piccolo ma ricchissimo emirato, accusato di rompere il fronte anti-iraniano dei Paesi sunniti e di intrattenere relazioni sempre migliori con l’Iran sciita. Nella storia, di solito a un blocco aero-navale si risponde con la guerra, che naturalmente sarebbe combattuta contro i sauditi non solo dal piccolo esercito qatariota ma da quello, ben più temibile, iraniano.



Ci si potrebbe chiedere perché il Qatar è così importante. Dopo tutto, ha solo 200mila abitanti. Ma ci sono diverse buone ragioni per pensare che quello che succede in Qatar può davvero scatenare una guerra mondiale. Primo, il Qatar è il Paese più ricco del mondo, con il più alto reddito pro capite. Secondo, ha investito i suoi miliardi acquisendo aziende strategiche, e quote di altre aziende strategiche, soprattutto in Europa ma anche in Giappone e negli Stati Uniti. Da un pezzo della Volkswagen alla squadra di calcio del Paris-Saint Germain, passando per la casa di moda Valentino, centinaia di società europee vedono il Qatar come proprietario o almeno azionista importante. Terzo, il Qatar ha superato la Russia come primo esportatore di gas nel mondo. Il gas non è meno importante del petrolio, e il Qatar ha anche il petrolio. Quarto, il Qatar ospita ad al-Udeid una delle più grandi basi fuori degli Stati Uniti dell’aviazione americana, cruciale nel dispositivo militare globale statunitense.



La rivalità economica, politica e culturale all’interno del mondo sunnita tra Arabia Saudita e Qatar è arrivata a un punto di rottura, ma di per sé questo non giustificherebbe una guerra. Il problema è che il Qatar, per resistere alle pressioni saudite, si è davvero avvicinato all’Iran sciita, e questo rischia di rompere tutti gli equilibri all’interno del mondo islamico.

La lotta tra gli sciiti — e i loro alleati, tra cui gli alawiti della Siria di cui è esponente la famiglia Assad — e i sunniti, guidati da Arabia Saudita e Turchia, è l’elemento principale che scatena le tensioni all’interno del mondo islamico. E la guerra mondiale è anzitutto una guerra civile intra-islamica, come sembrano non capire i teorici dello scontro di civiltà. Hanno torto: non è una guerra contro l’Occidente, e l’Occidente è colpito perché sospettato di interferire nel conflitto tra musulmani.

L’Isis ha ampi collegamenti con l’Arabia Saudita. Non ha caso ha colpito in Iran e ha colpito in Occidente — attraverso la sua caratteristica tattica indiretta di eccitare personaggi marginali reclutati via Internet —, nel secondo caso mandando un avvertimento il cui messaggio è “State fuori dei nostri conflitti”. Ma questo è impossibile, visto quanto il Qatar sta dentro l’economia occidentale, specie europea e italiana compresa. Ed è impossibile agli Stati Uniti, che hanno relazioni militari cruciali sia con il Qatar sia con l’Arabia Saudita. 

Si è parlato molto da noi della spinta di Trump al primo ministro del piccolo Montenegro per mettersi al centro di una fotografia in Europa. Molto meno della spinta del principe ereditario degli Emirati Arabi Uniti all’emiro del Qatar per essere fotografato a fianco di Trump durane la visita del presidente americano nella capitale saudita Riyadh. Ma se vogliamo capire gli attentati la seconda spinta è più importante. C’è da augurarsi — ma temendo il contrario — che Trump o qualcuno dei suoi collaboratori abbia le categorie politiche, culturali, e anche religiose (che sono indispensabili) per capire che cosa sta succedendo in Medio Oriente. Senza una mediazione americana autorevole e forte, la guerra potrebbe essere inevitabile, e così il terrorismo che la precede e l’accompagna come un’ombra.