Era impossibile – nella tarda serata di ieri – resistere alla tentazione di sovrapporre a caldo la giornata politica britannica a quella italiana. E non era facile decidere da dove cominciare: se dall’hung parliement – il “parlamento impiccato” pronosticato dagli exit polls a Londra – oppure dalle convulsioni del parlamento di Roma sulla legge elettorale.
E’ stato impossibile, comunque, eludere un’evidenza: le elezioni anticipate hanno punito gli stessi Tory che – un anno fa – avevano chiamato il referendum Brexit, perdendolo in modo scioccante. Non è bastato al partito conservatore sacrificare il premier David Cameron, all’alba del primo giorno della Gran Bretagna fuori dalla Ue. Certamente, invece, hanno pesato, nelle settimane successive, i conflitti intestini ai Tory: dai quali Theresa May è emersa nell’immediato vincente, ma senza riuscire da allora ad elaborare e quindi governare l’era-Brexit. Anzi, la scommessa sulle elezioni anticipate è parsa, a conti fatti, altrettanto azzardata e maldestra di quella di Cameron sul referendum: un tentativo alla fine molto tattico e strumentale di mantenere in qualche modo la leadership parlamentare, senza reali sforzi di comprensione e gestione politica dei cambiamenti in corso nella società britannica.
L’avvio dei negoziati su Brexit con la Ue e il ritorno di fiamma del terrorismo islamico nel Regno Unito sono stati i due terreni sui quali May – come minimo – non ha convinto gli elettori. In modo non del tutto sorprendente. La premier non è mai stata decisa e convincente sulla linea da seguire con Bruxelles. Ha privilegiato alla fine hard Brexit ma non senza ondeggiamenti e subendo sempre il confronto con Angela Merkel (una delle virtuali vincitrici di ieri a Londra). Da un lato May ha scontentato i “Remain” (soprattutto gli establishment della City e di “Oxbridge”) che non hanno mai rinunciato all’idea di un possibile superamento di Brexit, con un fresh start, magari nel cantiere di ricostruzione della nuova Ue. Dall’altro, il consenso delle analisi post-referendum ha detto che il “Leave” è stato un voto strumentale: che la scelta di uscire dall’Unione europea è stata alla fine un pretesto per manifestare un disagio più esteso, complesso, multidimensionale (Brexit migliorerà o peggiorerà il reddito pro-capite dei britannici medi? Nessuno ha ancora una risposta).
Dieci anni dopo gli attentati nella Londra di Tony Blair, i radicali islamici (non pochi di passaporto o nascita britannica) sono tornati a colpire, ad uccidere: a pochi passi dal Parlamento, in un concerto a Manchester, un sabato sera in centro a Londra. Enough is enough, ha strillato May a quarantott’ore dal voto. Ma – sempre stando agli exit polls – sono gli elettori ad averne abbastanza di una guida incerta a Downing Street. Tutto comunque sembra ormai instabile oltre la Manica: Boris Johnson – l’ex sindaco conservatore di Londra – ha vinto la sua crociata anti-Ue ma ha poi perduto il confronto con May per il cabinet. Come Lord Mayor gli è succeduto Sadiq Khan, laburista liberale (ma la categoria corrente è ormai “politicamente corretto”, “obamiano”), di origini pachistane e fede musulmana: nell’immediato pre-voto ha intimato alla May di vietare a Donald Trump di visitare Londra. Il rilancio del Labour di Jeremy Corbyn sembra tuttavia aver premiato l’ala sinistra del partito: lontana da ogni “macronismo” e forse vicina a quella frustrazione socio-economica profonda che – in Italia – è la linfa del grillismo.
Già, l’Italia. Un referendum indetto male e perso peggio. Un premier-leader che si dimette. Un partito che mette al governo un altro premier ma non riparte per davvero, ansioso di curare in fretta una ferita brutta e dolorosa con un voto-cerotto. Un Paese stretto fra postumi della crisi finanziaria, flussi migratori e intergrazioni difficili, confronto con l’Europa core. Ma stiamo parlando della Gran Bretagna che ha appena votato in fretta e si sta ritrovando con un parlamento ingovernabile, o dell’Italia che vorrebbe votare in fretta non ci riesce per via di un parlamento già ora ingovernabile?