È sempre difficile decifrare i contenuti e i risultati reali dei grandi vertici mondiali, e mai come per il recente G20 di Amburgo questo fatto sembra trovare conferma.

Il summit è stato lo specchio di un mondo in cambiamento continuo, imprevedibile e disorganico, afflitto da conflitti sempre più complessi da controllare per la loro natura ibrida. Il fatto che, per diverse ragioni, alcuni leader mondiali sembrino dover ancora definire una chiara strategia di politica internazionale — come Trump, Macron e Trudeau — o siano prossimi a scadenze elettorali — Merkel, Putin e Gentiloni — o ancora siano alle prese con situazioni interne complesse — sempre lo stesso Trump, ma anche Erdogan, May, Abe, Macri e Temer — aumenta il tasso di diffidenza reciproca, rendendo difficile una lettura complessiva. In questo contesto appare chiaro come non bastino sorrisi e dichiarazioni di circostanza a fugare l’impressione che i formalismi abbiano la meglio sulla sostanza delle grandi decisioni politiche.



Un esempio per tutti è costituito dalla questione climatica, dove il G20 ha dovuto prendere atto della contrarietà di Trump (già chiaramente espressa al G7) agli accordi di Parigi, tentando di minimizzare, dietro l’ampio consenso (19 a 1), il brusco rallentamento della strategia globale di lotta contro i cambiamenti climatici che deriverà dalla mancanza dell’apporto fondamentale degli Stati Uniti.



Molti dei temi cruciali per il pianeta sono stati solo sfiorati: il terrorismo jihadista, le grandi migrazioni di massa, lo sviluppo dell’Africa, i disastrosi conflitti in Medio Oriente, l’escalation militare dall’Ucraina alla Corea del Nord.

Tutto ciò giustifica la sensazione che il vertice abbia prodotto risultati modesti.

Tuttavia, il valore principale di questo G20 — non a caso contestato dai no-global — resta quello di aver riconosciuto che la globalizzazione vada governata con una visione multilaterale. Un fatto particolarmente prezioso in un momento storico nel quale assistiamo all’affermarsi di logiche bilaterali, che sembrano ormai prevalere anche nella visione della nuova amministrazione statunitense. 



Fatta questa premessa, è possibile esprimere alcune considerazioni sulle scelte dei principali leader che hanno partecipato al summit di Amburgo, che possono fornire alcuni spunti di riflessione anche sulle ragioni per cui i risultati del summit appaiono limitati.

Il presidente russo Putin ha dimostrato ancora una volta di essere il più grande tattico tra i suoi colleghi, sfruttando le debolezze altrui e uscendo, agli occhi di molti osservatori, come il trionfatore del summit. Questo stride, però, con la sua mancanza di visione strategica, la manifesta muscolarità che spinge Mosca ad aumentare le pressioni militari sull’Est Europa e la realtà di una Russia in situazione economica disperata, nella quale non esistono né democrazia, né libertà, né rispetto dei diritti umani.

Donald Trump si è dimostrato più che mai ondivago, passando in pochi giorni dalle violente affermazioni anti-russe di Varsavia a manifestazioni di entusiasmo per il bilaterale con Putin. Più che una dimostrazione di confusione mentale, questa imprevedibilità sembra essere ormai una caratteristica di tutti i leader populisti, condizionati dalla volubilità dell’opinione pubblica dalla quale si sentono irrimediabilmente condizionati.

La Cancelliera tedesca Merkel si conferma solida e determinata, pur nella sua teutonica rigidità, e appare ormai una leader globale a pieno titolo. Anche se è certamente aiutata in questo dalla scarsa consistenza di molti dei suoi “concorrenti”.

Gli enfants prodiges Macron e Trudeau appaiono ancora alle prime armi. Devono studiare molto, ma almeno hanno il tempo dalla loro parte.

Il presidente cinese Xi Jinping, abile e sornione, riafferma il basso profilo cinese ma è certamente oggi il leader di maggiore sostanza. Pur alle prese con una situazione interna non facile e con crescenti perplessità dell’establishment cinese rispetto al suo grande progetto della nuova Via della seta. Resta il fatto che tutti i Paesi lo cercano.

Il premier indiano Modi è stato la vera sorpresa. Con i suoi travolgenti abbracci agli altri (imbarazzati) colleghi porta finalmente l’India in modo convincente alla ribalta globale. Un Paese di un miliardo di persone che cresce al ritmo del 7% si appresta a giocare un ruolo fondamentale negli equilibri mondiali, ponendosi come naturale contraltare del colosso cinese. Questa potrebbe essere una buona notizia per l’Europa, che condivide con l’India una fetta importante di storia e i comuni valori della democrazia e della tolleranza. Un’alleanza strategica tra Europa e India è, probabilmente, la prospettiva più seria di bilanciamento tra i grandi blocchi.

Da ultimo, il premier Gentiloni è sostanzialmente promosso sullo scenario europeo. Ha infatti posto con dignità e coraggio anche a livello globale il tema dell’immigrazione. Anche se al momento i risultati di quest’azione appaiono ancora scarsi. Occorre lavorare molto, ma ormai il mondo intero riconosce all’Italia l’incredibile sforzo fatto grazie ai toni e ai modi misurati, ma determinati, del nostro primo ministro. Troppo poco? Forse, ma non è facile scrollarci di dosso, a livello internazionale, l’immagine negativa dei Grillo e dei Salvini, né le esagerazioni renziane degli ultimi anni. Infine, Gentiloni ha azzeccato in pieno la mossa del bilaterale con Modi, fondamentale non solo per arrivare ad una soluzione finale del caso marò, ma per porre nuovamente il nostro Paese tra gli interlocutori principali del colosso indiano dopo lo sciagurato caso Agusta.

Un G20, insomma, dai molti chiaroscuri, certamente non entusiasmante, ma non privo di aspetti di grande interesse.