Dopo i segnali distensivi del G20 sembra esserci un nuovo clima internazionale, favorevole ad una svolta positiva per la Siria. Lascia ben sperare che gli Stati Uniti e la Russia si siano accordati sulla realizzazione di “una zona di sicurezza al sud della Siria” (nella zona di Deraa, Quneitra e Suwayda) e che la tregua tenga. Il cessate il fuoco è in vigore dal 9 luglio: se le cose andranno per il verso giusto, Mosca èaddirittura possibilista su una eventuale estensione delle aree di de-escalation ad Idlib (l’unica grande provincia siriana detenuta dai ribelli guidati da Fatah al-Sham (al Qaeda).



Il percorso però non è privo di ostacoli: seppure il cessate il fuoco per ora regga, i rappresentanti di diversi gruppi di opposizione armata presenti nell’area interessata hanno dichiarato che non intendono rispettare l’accordo siglato ad Amburgo. Si tratta per lo più dei gruppi più numerosi in zona, il Free Syrian Army (Fsa) e la coalizione islamista Tahrir al-Sham, guidata dall’organizzazione terroristica Fatah al-Sham (al Qaeda). 



Al problema delle milizie recalcitranti e ancora “dubbiose” sul da farsi, si aggiunge la diffidente posizione iraniana. E’ ovvio che un accordo di pace senza il benestare iraniano è improponibile. Teheran ha più di una ragione per reclamare di far valere la propria opinione: le forze iraniane e le milizie sciite irachene che fanno riferimento all’Iran stanno sostenendo il grosso dei combattimenti in Siria e hanno fatto la differenza. Inoltre, è rilevante che gli iraniani, rispetto ai russi, come posizione politica sul futuro della Siria sono molto più vicini al punto di vista di Assad, che esige una Siria unita e non smembrata tra le potenze straniere coinvolte.



A complicare le cose, c’è anche il noto conflitto interno nell’amministrazione americana. La nuova posizione imposta dalla presidenza Usa ha fatto andare su tutte le furie il senatore John McCain, capofila della corrente ultra-neocon statunitense ispiratrice della guerra siriana e principale artefice dell’appoggio ai ribelli jihadisti (eloquente il suo viaggio nel 2013 in Siria per incontrare i leader del Free Syrian Army e affiliati). 

Tale conflitto interno però è mitigato dal raggiungimento di quasi tutti gli obiettivi statunitensi: si è stabilita una ulteriore presenza Usa nell’area (sono state costruite o sono in costruzione ben 8 basi americane in territorio siriano); si va spediti verso il partizionamento del paese e verso il conseguente depotenziamento dello stato centrale; viene salvaguardata la sicurezza di Israele e il mantenimento della sua supremazia nell’area. In definitiva, tutti questi elementi soddisfano gran parte dei motivi per cui gli Stati Uniti hanno pianificato la guerra siriana molti anni prima del suo inizio. Inoltre, non è da trascurare che l’instaurazione della “zona di sicurezza” al confine con Israele avvicina l’occupazione definitiva del Golan, zona in cui lo stato ebraico ha trovato un enorme giacimento di gas tale da assicurarsi l’autonomia energetica almeno per i prossimi cinquant’anni.

Da parte sua, l’Iran con l’esercito siriano e con l’appoggio dei russi ed Hezbollah, in questi giorni sta compiendo un’offensiva per riconquistare più territorio possibile verso Deir Ezzor ed Hama prima delle prossime trattative di Ginevra (stabilite per settembre) e prima che la situazione dei combattimenti venga congelata definitivamente interrompendo gli sbocchi verso l’Iraq e l’Iran. 

In positivo, nell’insegna della strategia win-win — che spesso si rivela la sola vincente — da segnalare è il recente riavvicinamento dell’Iran alla Francia suggellato da un remunerativo contratto con la francese Total per lo sfruttamento di alcuni giacimenti di gas iraniano, tra cui il più grande del mondo condiviso con il Qatar. Il fatto non ha solo una valenza commerciale: la Francia ha accettato una proficua collaborazione a tutto campo e, ponendosi come garante delle relazioni tra Europa ed Iran, sta rivedendo complessivamente tutta la sua politica estera in Medio oriente e quindi la sua strategia nei confronti della Siria.

A riguardo, i primi segnali della “svolta” si sono visti già nel nel mese di giugno quando il presidente Macron ha affermato in un’intervista rilasciata a otto giornali europei (tra cui il Guardian, El Pais e il Deutsche Zeitung), che “non esistono al momento successori legittimi che possano svolgere il compito che Assad sta svolgendo di combattere il terrorismo e di tenere insieme il paese”. 

La nuova posizione francese è stata ulteriormente approfondita e riconfermata durante la visita del presidente Trump a Parigi, in occasione dei festeggiamenti della presa della Bastiglia. Nella conferenza finale congiunta il leader francese ha comunicato che la Francia sta optando per una nuova “dottrina” per affrontare la crisi della Siria, in cui la rimozione di Bashar al-Assad non è più una condizione preliminare per avviare i colloqui del dopoguerra. Egli ha anche detto che l’obiettivo numero uno della comunità internazionale deve essere invece “la lotta contro i jihadisti di tutti i gruppi terroristici”, perché sono essi “il vero nemico”. 

E’ da registrare che mentre il negoziato di Ginevra conclusosi la settimana scorsa è stato per l’ennesima volta un insuccesso, l’incontro tra Macron e Trump ha avuto come conseguenza operativa la creazione di un gruppo di contatto bilaterale franco-americano, con il compito di stabilire una “road map” che preveda come obiettivo finale la soluzione del conflitto e il futuro assetto politico della Siria.

E’ chiaro che le conferenze di pace senza una chiara volontà politica non hanno alcuna possibilità di riuscita: dopo le iniziative di Russia, Turchia e Iran (garanti del cessate il fuoco del formato-Astana), mancava la partecipazione convinta dell’occidente. In tale contesto, la volontà francese di rompere l’isolamento internazionale intorno a Teheran, la sua mutata posizione sulla Siria (condivisa da Berlino) e conseguentemente, l’apertura di un nuovo e robusto asse Parigi-Washington, costituiscono sicuramente elementi importanti per un decisivo impulso ad una soluzione diplomatica del conflitto.