La presa di Mosul e la probabile prossima caduta di Raqqa sembrano decretare la fine dell’Isis e aprire la possibilità di un’auspicabile, pacifica soluzione dei complessi problemi di questa parte di Medio oriente. Tuttavia, come descrive il generale Jean nella sua intervista al sussidiario, gli attori sul campo hanno obiettivi molto differenti e sarà difficile arrivare a una loro composizione. Soprattutto se continueranno a farsi guerra, per fortuna non ancora guerreggiata, Stati Uniti e Russia, i due attori nominalmente fuori campo ma determinanti per ogni concreta soluzione.



L’Iran, diventato il “cattivo” nella narrativa dominante, sembra avere obiettivi ben precisi, di cui il principale è arrivare al Mediterraneo, diventato una meta ambita per diversi contendenti, snobbato invece dall’Unione Europea a trazione tedesca. La costruzione dell’ormai famosa “mezzaluna sciita”, con la riunione delle aree abitate dagli sciiti, è probabilmente secondaria date anche le divisioni interne al mondo sciita. Per esempio, gli arabi sciiti iracheni sono tutt’altro che inclini a sottomettersi a una stretta dipendenza dagli iraniani, non arabi. E la divisione riguarda non solo la sfera etnica, ma anche quella politica e religiosa, come dimostrato in passato dalle divergenze tra il clero iracheno, guidato da al-Sistani, e gli ayatollah iraniani. Ovviamente, ciò non significa una rinuncia di Teheran a sfruttare lo spettro dell’unità sciita ai propri fini.



L’Arabia Saudita, sotto la guida delle nuove generazioni della casa regnante, sembra decisa a non accontentarsi più del ruolo che le deriva dalla sua funzione di custode dei luoghi santi dell’islam. Il nuovo obiettivo sembra l’assunzione del ruolo di Paese guida di una specie di Risorgimento arabo, una ripresa del nazionalismo arabo che come tale si oppone non solo all’Iran sciita, ma anche alla sunnita Turchia.

A sua volta, la Turchia di Erdogan, sempre più islamista, sembra altrettanto decisa a giocare un ruolo guida nella regione, di cui è lo Stato più popoloso, insieme all’Iran — entrambi attorno agli 80 milioni di abitanti, contro i circa 32 dell’Arabia Saudita. La copertura, diciamo così ideologica, è data dalla ripresa della tradizione ottomana, un serio pericolo sia per l’Arabia Saudita che per l’Egitto, anche se quest’ultimo difficilmente può essere messo nel mirino di Ankara. In questo quadro, si potrebbe delineare una tacita alleanza tra Turchia e Iran, in vista di una divisione concordata delle aree di influenza. Qualcosa del genere sta già avvenendo con il Qatar, accusato di collusione con l’Iran da Arabia e Stati del Golfo, ma sostenuto dalla Turchia, anche militarmente.



Anche la strategia russa appare lineare, con l’obiettivo di mantenere la sua base nel Mediterraneo, attraverso il sostegno al governo siriano e a Teheran. Per Mosca è questa la premessa per ogni soluzione della questione siriana, non certo l’appoggio di per sé ad Assad. La complessità della situazione consente a Putin di espandere l’influenza russa al di là di questo asse principale, come provano i rapporti instaurati per esempio con l’Egitto.

Rimane invece abbastanza difficile comprendere le linee di fondo della strategia americana e il cambio di presidenza ha aumentato, piuttosto che diminuito come ci si poteva aspettare, le contraddizioni. Forse siamo in presenza di una strategia molto sottile e quindi difficile da capire; nel frattempo resta la sensazione di azioni all’insegna del “tanto peggio, tanto meglio”. In questo modo, però, si allontana sempre più la stabilizzazione dell’area e si aumentano i rischi di uno scontro dalle conseguenze fatali. Chi sembra approfittare della confusione è il governo israeliano, che continua la sua pericolosa, e ingiusta, politica degli insediamenti, minando alla base la soluzione dei “due Stati”. Aiutato in questo dal conflitto tra Hamas, che governa Gaza, e l’Olp dei Territori, a sua volta estremamente divisa al suo interno.

Tornando all’Isis, non è probabile una sua definitiva cancellazione, ma piuttosto la sua trasformazione in una delle tante milizie jihadiste operanti in Siria e in Iraq. Anche la sua capacità di colpire fuori dall’area non sarà fortemente diminuita, potendo contare su una rete operativa già costruita in vari Paesi. A questo si aggiunge l’alleanza ideologica, ma anche operativa, con altre consistenti entità, quali Boko Haram in Nigeria e gli Shabaab in Somalia. Inoltre, la sconfitta dell’Isis in Siria e in Iraq farà rientrare nei Paesi di origine numerosi cosiddetti foreign fighters, che provocheranno non solo ulteriori attacchi terroristici, ma rafforzeranno le guerriglie islamiste locali, come sta succedendo nelle lontane Filippine. Forse è stata vinta una battaglia, ma la guerra è ben lungi dalla sua vera fine.