Il 9 di luglio è stata data ufficialmente notizia della liberazione di Mosul, la seconda città irachena. La campagna militare è iniziata nell’ottobre 2016: ben due anni dopo che il Califfato l’ha conquistata in soli tre giorni. L’attendismo americano ha trovato la sua ragion d’essere nell’insoddisfazione verso il governo iracheno corrotto e troppo filo-iraniano. In queste circostanze l’Amministrazione americana ha pensato che il Califfato poteva risultare utile a portare avanti le proprie agende in Iraq e in Siria: come si evince da un documento segretato (si tratta di un rapporto del 2012 della Defense Intelligence Agency – DIA), l’Occidente, gli stati del Golfo e la Turchia dovevano “supportare la possibilità di stabilire un dichiarato o non dichiarato principato salafita nell’est della Siria in Hasaka e Der Zor”.



Si badi bene che il documento mostra che già nel 2012, l’intelligence degli Stati Uniti aveva predetto l’ascesa dello Stato Islamico in Iraq e il Levante (Isil o Isis), ma “invece di delineare chiaramente il gruppo come un nemico, gli Stati Uniti hanno previsto di trarne vantaggio strategico” (vedi rapporto Levant). Dello stesso significato una registrazione audio dell’ex Segretario di Stato Kerry il 22 settembre 2016 effettuata nei locali della delegazione olandese alle Nazioni unite, pubblicata dalla CNN; nella conversazione Kerry sostiene che gli Usa hanno sostenuto il Califfato pensando che ciò avrebbe portato a una débacle dell’esercito siriano: la retorica occidentale contro il terrorismo si riduce perciò a nulla.



In tutti i casi, qualunque siano state le agende geopolitiche – perché di nient’altro si tratta -, il minimo comun denominatore è ed è stata la sofferenza dei civili, il disastro umanitario.
Per quando abbia suscitato meno clamore mediatico, la liberazione di Mosul ha causato un numero di morti tra i civili maggiore rispetto a quelli causati dalla campagna russo-siriana per la liberazione di Aleppo. In una intervista su The Indipendent (pubblicata giovedì scorso), l’ex ministro Hoshyar Zebari ha ricordato che i bollettini ufficiali dell’operazione “Inherent Resolve” hanno abbondantemente sottostimato le perdite civili: le operazioni militari per la liberazione di Mosul avrebbero causato la morte di non meno di 40.000 civili. Zebari – che ha fatto questa spaventosa denuncia -, che ha ricoperto l’incarico di ministro dell’Economia e precedentemente quello di ministro degli Esteri, ha così proseguito: “I residenti della città assediata sono stati uccisi dalle forze di terra irachene che tentavano di espellere i militanti, così come dagli attacchi aerei e dai combattenti dell’Isis”.



The Indipendent commenta la dichiarazione dell’ex ministro: “La cifra data dal signor Zebari per il numero di civili uccisi nei nove mesi di assedio è di gran lunga superiore a quelle precedentemente riportate, ma il servizio di intelligence del governo regionale del Kurdistan ha una reputazione di essere estremamente precisa e ben informato”. Precedentemente i report dell’organizzazione britannica Airways si erano limitati a fornire solo i dati dei bombardamenti aerei; perciò non davano contezza dell’esatta dimensione della tragedia in atto. 

Agghiaccianti anche gli altri dati forniti dalle Nazioni Unite circa la devastazione della seconda città irachena: le operazioni militari per la liberazione di Mosul, iniziate nell’ottobre del 2016, hanno prodotto 862 mila sfollati; più della metà della popolazione che nel periodo anteguerra, occupava la città. Considerando le zone limitrofe questi numeri aumentano: gli sfollati aumentano a un milione/un milione duecentomila. Inoltre, la conduzione per la liberazione della seconda città irachena ha distrutto o danneggiato l’80% degli edifici e solo la metà di questi è in condizione di essere ripristinato. Il risultato è che il 40% della popolazione non potrà più tornare alle proprie case. 
È provato che le forze irachene – esasperate dalle continue autobomba e dalle eccessive perdite subite – hanno optato per un uso indiscriminato della forza. Non meno problematiche sono state le vendette sui civili compiute dall’esercito iracheno, soprattutto dalle “Forze di mobilitazione popolare”, le milizie irregolari sciite dal 2016 (incorporate nell’esercito iracheno ma del tutto autonome). Tali formazioni imbevute di puro revanchismo si sono date a vendette contro la popolazione sunnita (sospettata sistematicamente di sostenere e colludere con i gruppi jihadisti) sottoponendola a umiliazioni se non maltrattamenti, torture, rapimenti con riscatto o esecuzioni extragiudiziali. È drammatico che molti civili innocenti che hanno prima subito le angherie dell’Isis, poi gli effetti dei bombardamenti e infine sono rimasti senza casa, si sono trovati ad affrontare le rappresaglie indiscriminate dei vincitori.

Inutile dire che questi episodi insieme alla liberazione cruenta di Mosul (ormai uno “standard” anche per le altre provincie), favoriranno l’iperpolarizzazione settaria tra le diverse anime del Paese, allontanando ogni speranza di pace duratura. Su queste pratiche, il giornale tedesco Spiegel ha pubblicato un servizio fotografico “Mostri o eroi?” realizzato da Ali Arkady fotografo iracheno e regista documentarista che è stato testimone delle torture inflitte a semplici sospettati. Su questi comportamenti diffusi, sia Amnesty International che Human Rights Watch stanno segnalando già dall’anno scorso, gli abusi delle milizie irachene, raccomandando di evitare che la campagna militare per la riconquista di Mosul si trasformi in una nuova serie di crimini di guerra ai danni della popolazione civile. 

In tutti i modi, i problemi non sono finiti con la liberazione di Mosul. Gli esperti ritengono che i membri locali della coalizione non sono in grado di condividere la vittoria, e ciò crea un rischio per la nascita di nuovi possibili conflitti. Inoltre, per complicare ulteriormente le cose, il premier curdo della regione autonoma del Kurdistan iracheno Barzani ha indetto per il 25 settembre un referendum popolare per la separazione del Kurdistan come stato indipendente: un altro elemento che non gioverà alla distensione nell’area.

Ciò avviene in un contesto in cui l’Isis non è stato del tutto sconfitto, segnato da grande debolezza del governo e dominato da profonde divisioni etnico-religiose. La prospettiva più realistica è che l’Isis dopo il fallimento del suo esperimento pan-arabo, torni alla sua forma più congeniale – la clandestinità – mettendo a ferro e fuoco il Paese in una lenta azione di ulteriore logoramento.