Macron disvela ogni giorno il vero significato della sua discesa in campo: la parte dell’establishment più preoccupata della decadenza della Francia muove alla riscossa. Le anticipazioni intellettuali erano già tutte in un bel libro seminale come quello di Bavarez “La France qui tombe”, che partiva dall’economia per finire nella politica estera, e così in questo senso andavano le scorrerie da mascalzone marsigliese di Sarkozy, che mentre proprio sulla Libia svillaneggiava Berlusconi (come la gran parte degli italici opinion maker), bombardava Gheddafi e con Uk e Obama poneva le basi di una tragedia senza fine.
Orbene, sui migranti il chiudersi a riccio francese ha conseguito due risultati: legittimare l’egoismo nazionale erigendo muri; destabilizzare l’Italia inondandola di poveri uomini mentre lo Stato italico non sa che fare, salvo compassionevolmente salvare vite e meno compassionevolmente distribuire euro e telefonini ai migranti ponendo le basi per una guerra tra poveri, mentre i ricchi di sinistra stanno a guardare.
Ora la parte della cuspide del potere francese che ha costruito Macron chiede di più. Chiede di costruire una nuova Francia e non solo di destabilizzzare l’Italia. E come insegna la storia non solo risorgimentale, ma anche quella delle due guerre mondiali, la Francia non può ricostruirsi come grande potenza se non partendo dall’Africa. La grandeur il est africaine on n’est pas, dicevano gli anti-gaullisti dell’Oas ai tempi dell’Algeria. Ebbene l’Africa sub-sahariana è un plesso di stati a influenza francese (monetaria, militare ed economica) già fortissima, ma che è inespressa nella sua potenzialità geostrategica se non si espande a nord attraverso il Fezzan, il Ciad e il Niger sino alla Libia, saldandosi così con la potenza egiziana. Algeria, Tunisia e Marocco completerebbero una corona di stati più stabili di molti altri e fonderebbero in tal mondo una presenza africana della Francia che potrà prima guardare anche al Congo di Kabila (o di chi gli succederà) e poi a un’alleanza neocolonialista con la Germania di cui rapidamente si stanno ponendo le basi con accordi militari e politici di lunga durata.
L’accordo che Macron ha fatto sì che si raggiungesse nel castello pieno di storia nei pressi di Parigi tra Khalifa Haftar, capo militare appoggiato da sempre da Francia, Russia ed Egitto, e Fayez al-Sarraj, appoggiato da nessuno se non dall’Onu che non conta nulla e da un’Italia eroica e intelligente (basti pensare ai capolavori diplomatici dell’Eni e della nostra intelligence con quel miracolo dell’incontro di Minniti con i capi delle comunità tribali anche urbane) è decisamente anti-italiano, visite diplomatiche a parte. L’Italia è sottoposta infatti a un attacco concentrico a cui la politica non sa opporre una contro-strategia convincente ed efficace.
Anche l’accordo di Macron rimarrà sulla carta, perché le divisioni tribali (son più di cento le grandi tribù libiche, l’una in contrasto con l’altra) non si superano senza un capo locale ancora non individuato e senza raggiungere un accordo con i berberi. Essi sono legati ad Haftar in un territorio che non è quello cirenaico, ma addirittura a sud-ovest di Tripoli, dove non a caso Sarraj vive sempre in pericolo per la sua incolumità. E che dire poi delle milizie di Misurata alleate sempre di Haftar e che combattono su più fronti contro l’Isis, ma anche contro il protetto dall’Onu (Sarraj), rievocando la grande epopea della resistenza alla dominazione coloniale?
Macron ha agito troppo presto e in un contesto interno delicato anche per le dimissioni del capo dell’Esercito, quel Pierre de Villiers che ha forti appoggi nel coté gaullista che fa da fronda allo stesso progetto macroniano. Insomma, il ragazzo che crede di essere De Gaulle ha sbagliato i tempi e i modi.