Tre autobomba sono esplose ieri nel centro di Damasco, causando 12 morti e una quindicina di feriti. Questo accade mentre la portaerei Bush, la più grande del mondo, si trova di fronte alla località israeliana di Haifa con la sua squadra navale. Due fatti apparentemente isolati, il cui unico effetto certo, sembrerà scontato dirlo, è quello di aumentare la tensione proprio alla vigilia dei negoziati di pace (4-5 luglio ad Astana).
Tentiamo dunque, ancora una volta, di interpretare quanto sta accadendo. Tutti sappiamo della guerra in Siria: dura da sei anni, ha causato finora 400mila morti, molte famiglie sono state decimate, altre non hanno più la casa e tante vivono in condizioni indicibili senza cibo, acqua, elettricità, medicine. Oltre 11 milioni di persone hanno lasciato la propria abitazione e sei milioni sono gli sfollati interni, 4,8 milioni sono registrati nei paesi vicini dalle agenzie Onu (in Giordania, Libano, Turchia ed Iraq) ed un milione ha raggiunto l’Europa. E’ paradossale che mentre tutto questo continua ad avvenire, ad un certo punto, quando il mondo si indigna, lo fa per notizie non certe o che devono ancora avvenire.
E’ il caso dell’annuncio della Casa Bianca la settimana scorsa: il presidente Trump ha paventando “un nuovo attacco chimico” da parte di Damasco e — non fornendone le prove — ha promesso una dura risposta contro Assad e le forze armate siriane nel caso quanto preannunciato si verifichi. Nel comunicato si legge che “gli Stati Uniti hanno identificato potenziali preparativi per un altro attacco con armi chimiche da parte del regime di Assad, che probabilmente potrebbe comportare l’assassinio di massa di civili, tra cui bambini innocenti”.
L’amministrazione americana nel minacciare rappresaglia fa riferimento al precedente attacco chimico di Khan Shaykhun (Idlib). Per punire quell’incidente (che aveva causato 80 morti e circa 200 feriti), i missili delle navi Usa la notte del 7 aprile hanno lanciato 59 missili da crociera sull’aeroporto di Shayrat contro l’esercito governativo siriano.
Ebbene, ad oggi quell’incidente non è mai stato chiarito. La commissione Onu per la proibizione delle armi chimiche (Opcw) ha reso noti i risultati venerdì ed ha stabilito solo la presenza di gas nervino “sarin”. Ma per quando riguarda le responsabilità, l’Opcw non ha potuto indicare i colpevoli perché gli Stati Uniti — nonostante le forti insistenze della Russia — non hanno accettato che alla missione si conferisse mandato per individuare le responsabilità dell’attacco.
La guerra siriana è stata lunga e sanguinosa, ma appunto per questo, sebbene un attacco con gas chimici sia cosa terribile, se si perde di vista il contesto generale in cui i singoli eventi avvengono inevitabilmente ne verrà fuori un giudizio falsato. Non bisogna dimenticare che ci troviamo di fronte ad una guerra di aggressione appaltata a terzi: già nel 2011, Philip Girardi (ex agente della Cia e direttore esecutivo del Consiglio per l’interesse nazionale degli Usa) in un articolo “Nato vs. Syria” pubblicato su American Conservative descriveva già a quell’epoca — cioè a 9 mesi dall’inizio della “rivolta” — come la Nato fosse “già clandestinamente impegnata nel conflitto siriano, con la Turchia per portarla in vantaggio con delega degli Stati Uniti”.
L’ex agente della Cia così descriveva ciò che di lì a poco sarebbe avvenuto: “L’intervento sarà basato su principi umanitari, per difendere la popolazione civile in base alla responsabilità di proteggere, la dottrina che è stata invocata per giustificare la guerra di Libia”. Cosa stava accadendo è chiaro: al fine di espandere la propria zona di influenza in Medio Oriente, gli americani, sulla scia delle primavere arabe, hanno trovato l’occasione redditizia di disunire e indebolire la Siria. L’articolo indicava tutto ciò che poi sarebbe accaduto: il ponte aereo che avrebbe portato i miliziani libici; il coinvolgimento degli Stati del Golfo con varie forze “proxy” dei Fratelli musulmani; la creazione di una zona cuscinetto tra la Turchia e la Siria; ed infine, la presa di Aleppo da parte dei “ribelli”. Ciò che avverrà successivamente, cioè l’avvento dell’Isis, servirà alla coalizione Usa solo per legittimare la propria presenza in Siria mentre in realtà l’obiettivo resterà il collasso dello stato siriano.
A riprova di questo ci sono i fatti: la coalizione ha lasciato che l’Isis prendesse Mosul, Raqqa, Ramadi, Palmyra e molte altre località senza colpo ferire. Gli alleati hanno poi permesso che Daesh (stato islamico) prosperasse, permettendo la vendita di petrolio attraverso la Turchia. Addirittura la coalizione anti-terrorismo ha lasciato che 24 banche da Raqqa svolgessero transazioni internazionali senza alcuna sanzione. La comunità internazionale è intervenuta solo nel 2015, a seguito dell’intervento russo; però lo ha fatto insieme alla decisione di aumentare il sostegno alle forze salafite per moltiplicare il fronte interno.
Successivamente la coalizione internazionale, dopo aver subito alcuni attentati terroristici in Europa, ha aumentato le sue forze in Siria ma solo allo scopo di combattere Assad.
In realtà, contrariamente alla giustificazione data di combattere l’Isis, l’obiettivo attuale delle forze occidentali non è principalmente quello di contrastare il califfato ma soprattutto di impedire che si ripristini l’antica “via della Seta”, ossia le tre vie di facilitazione che collegano l’Iran con la Siria. Le potenze occidentali coloniali hanno sempre fatto accordi per evitarlo, prima con Saddam Hussein ed ora con le proprie milizie delegate (Sdf) addestrate in Giordania. Tuttavia, contrariamente a quando auspicato, le milizie arruolate tra le tribù beduine arabe nell’Sdf si sono rivelate scarsamente efficienti e motivate al combattimento.
L’inconveniente ha causato una rapida ed inaspettata avanzata delle forze governative che hanno interrotto il piano di spartizione della Siria. Per far fronte all’inconveniente, gli strateghi statunitensi hanno dato vita ad un frenetico e tardivo attacco su Raqqa (la “capitale” del califfato) anche tramite bombardamenti compiuti con armi convenzionali e con fosforo bianco.
Per qualcuno può essere una scomoda verità, ma è un fatto che l’esercito siriano ha combattuto contro l’Isis il doppio delle battaglie sostenute dagli Stati Uniti e dalle forze a loro alleate (vedi Study Shows Islamic State’s Primary Opponent in Syria Is Government Forces di IHS Markit leader mondiale per la sicurezza che fornisce informazioni ed analisi a supporto dei processi decisionali di imprese e governi).
Come è accaduto sempre nelle ultime guerre umanitarie, ancora una volta il risultato del piano statunitense è diverso da quelli prefissato: per l’amministrazione Usa è difficile accettare questo dato.
Per questo le tensioni si fanno gravi, gli atteggiamenti si fanno scomposti ed apparentemente irrazionali, la voce si fa più grossa, gli abusi ed i depistaggi sono quotidiani. Così il tentativo di imporre la propria volontà e rimettere in piedi la propria soluzione per la Siria passa attraverso i bombardamenti contro le forze siriane, l’abbattimento di un aereo siriano che attaccava l’Isis, i ripetuti raid aerei israeliani contro le forze siriane sul Golan, le forze turche che sono entrate in forze in provincia di Idlib; ed infine, attraverso la minaccia di un attacco massiccio delle Forze Usa contro la Siria, colpevole di preparare un “altro” attacco chimico.
Le ultime accuse americane non sono solo poco credibili perché inserite in questo contesto; sono anche mancanti di un filo logico. Si tenti, tra le altre cose, di rispondere alla domanda “cui prodest?”, a chi giova? Ad Assad certo no; sta vincendo ed è conscio che certe scelte sono inopinate e controproducenti.
La stessa cosa però non si può dire che valga per i ribelli: per loro subire un attacco con gas tossici (o auto-costruire una parvenza di attacco) equivarrebbe ad un massiccio (e “provvidenziale”) intervento militare della coalizione Usa contro Damasco. E pare anzi che si stiano muovendo proprio in questo senso: l’agenzia russa Ria Novosti riferisce che l’intelligence siriana ha segnalato la preparazione da parte dei ribelli di un attacco chimico in uno dei quartieri di Daara (distretto di Nova Jassim Angel) da far ricadere sull’esercito siriano.
Ma con le analisi non si risolve nulla. Il vero problema è che la previsione americana dell’attacco con i gas non ambisce ad essere “credibile”; il Deep State americano vuole solo ricordare agli avversari “smemorati” che qualora qualcuno si frapponga alla realizzazione degli interessi geopolitici americani, si passa alla guerra preventiva. Le ultime guerre (prima quella irachena e poi quella libica) ci hanno ormai edotto che non si tratta altro che di pretesti per dare una cornice legale ad azioni illegali, confidando su una generalizzata ed interessata accondiscendenza dei partner internazionali.
L’assoluto silenzio dei media ad una flagrante ed evidente interruzione di democrazia, la mancata reazione della politica italiana tutta presa intorno allo ius soli e alle solite beghe da cortile, danno ragione a chi ha voluto — offrendo un pretesto risibile — riconfermare che non ha bisogno di una dimostrazione credibile per iniziare una guerra.
Washington non vuol subire la sconfitta politica e diplomatica in Medio oriente, e il presidente Donald Trump vuole un atto di forza prima dell’imminente incontro con Putin il 7-8 luglio in occasione del G20 (e forse anche prima dei prossimi negoziati di pace ad Astana). Il volano militare è già in esecuzione e non si fermerà con la diplomazia: ha bisogno solo di una scusa formale per il via.