I problemi a Gerusalemme sono lungi dall’essere risolti. Questo è il titolo apparso su un giornale israeliano, all’indomani della decisione di rimuovere i metal detector dagli ingressi alla Spianata delle Moschee. Un titolo da sottoscrivere pienamente. I fatti drammatici e per certi aspetti inusuali, accaduti nelle scorse settimane, hanno avuto un grande merito: quello di svegliare la coscienza assopita degli israeliani e degli europei, dei politici americani come di quelli arabi, riguardo ai “problemi” da decenni esistenti a Gerusalemme e soprattutto rispetto al futuro politico della città.
È stato per tutti un brusco ma salutare risveglio. Ha fatto comprendere che il “problema” politico, culturale e religioso di Gerusalemme assai difficilmente potrà essere risolto sotto il riduttivo cappello della sicurezza. Un messaggio, innanzitutto, rivolto a Benjamin Netanyahu, il teorizzatore della possibilità di chiudere la partita Gerusalemme attraverso una lenta ma inesorabile erosione dell’autorità del Waqf, l’organismo religioso amministrativo che sovraintende alla Spianata delle Moschee. Un’azione che da anni si sviluppa con la combinata giustificazione della sicurezza e della libertà religiosa. Sicurezza per tutti gli ebrei che si affollano nella sottostante piazza dove si trova il Muro del Pianto; sicurezza per gli ebrei ortodossi che da alcuni anni salgono, spesso in gruppo e sempre scortati da polizia e soldati israeliani, sulla Spianata delle Moschee, ovvero il Monte del Tempio per gli ebrei. Molti ricordano la spettacolare passeggiata di Ariel Sharon, accompagnato da centinaia di poliziotti, nel settembre del 2000, sulla Spianata delle Moschee. Quasi nessuno invece ricorda che da quel momento i poliziotti israeliani sono in modo permanente all’interno della Spianata, alle porte di ingresso e poi al suo interno accompagnando i gruppi di ebrei ortodossi o disperdendo e arrestando i palestinesi che sulla Spianata manifestano o sventolano la bandiera palestinese.
A queste decisioni, e sempre in nome della sicurezza, si è aggiunta la più odiosa delle costrizioni: quella di permettere l’accesso alla Spianata delle Moschee il venerdì della Preghiera alle donne di ogni età, ma solo agli uomini con più di 50 anni. Questa asticella temporale nell’ultimo decennio si è innalzata: era all’inizio di 35 anni, poi 40, 45 e ora 50 anni. La sicurezza, ovviamente, viene a soccorre questa decisione: chi è più anziano, secondo la polizia, avrebbe meno voglia di organizzare manifestazioni di protesta antiisraeliane. Il crescere dell’età la dice lunga, secondo la stessa polizia israeliana, sul cumulo di rancore sedimentato negli animi dei palestinesi.
L’uccisione dei due poliziotti israeliani e drusi, il 14 luglio scorso, alla porta della Spianata di Bab Hutta ha questo retroterra storico. La novità sta in quanto accaduto all’indomani dello scorso 14 luglio. In rapida successione: la decisione del governo e della polizia israeliana di far accedere i fedeli musulmani con l’età decisa dalle autorità solo attraverso dei metal detector permanentemente istallati alle porte di accesso alla Spianata. Un atto ovviamente non concordato con il Waqf, ma che anzi sanciva l’ennesima erosione della sua autorità. In risposta a questa decisione è arrivata l’immediata richiesta del Waqf ai governanti israeliani di togliere i metal detector e la contestuale richiesta ai fedeli musulmani di non accedere più alla Spianata fin quando quegli strumenti di controllo non fossero rimossi. Una richiesta che voleva riaffermare, in modo quasi disperato, un principio di autonomia e ricordare agli israeliani che dal 1967 a Gerusalemme est sono una potenza occupante. La risposta dei gerosolimitani è stata imponente, costante, pacifica. Tutte le strade di Gerusalemme est, e non più come accadeva da anni il venerdì davanti alla Porta dei Leoni e alla Porta di Damasco, si sono trasformate in terra di preghiera pacifica.
La risposta scomposta e violenta della polizia di frontiera e dei coloni israeliani che ha portato all’uccisione di tre giovanissimi palestinesi ha dato la misura del senso di rabbia e di impotenza che montava di fronte a queste manifestazioni di massa, che sarebbero proseguite per ben 13 giorni. Neppure l’uccisione di tre coloni israeliani da parte di un palestinese, alle porte di Ramallah, è riuscita a far deragliare la protesta sulle strade della violenza generalizzata.
L’immagine dei fedeli musulmani in marcia e in preghiera intorno alle mura della Città vecchia, presidiate dai soldati in armi, è stata il segnale di una vittoria, che è giunta poco dopo. Una vittoria favorita anche dalle pressioni di re Abdallah di Giordania, ma costruita soprattutto a Gerusalemme dagli stessi gerosolimitani. Netanyahu ha dovuto far togliere i metal detector e far rimuovere le strutture per le nuove telecamere speciali: questa è la vittoria politica, piccola o grande che sia, dei palestinesi di Gerusalemme. I cento palestinesi feriti, quelli arrestati o quelli banditi dall’ingresso alla Spianata (una decisione di queste ultime ore) mostrano l’irritazione delle autorità israeliane.
I fatti di luglio segnano però una svolta religiosa e anche politica, riguardo a Gerusalemme, difficilmente cancellabile. Nessuno potrà continuare nel suo torpore e nessuno potrà più chiedere, con ingenuo candore: ma perché si oppongono ai metal detector? Ignorando il dramma che da decenni si consuma alle porte della Spianata delle Moschee.