TERZA GUERRA MONDIALE. L’opzione militare, ha dichiarato Trump, è pronta. La giornata di ieri ha visto nuove minacce di Kim Jong-un (“cancelleremo gli Usa”) alle quali ha prontamente risposto a tono il presidente americano, mentre la Russia ha rafforzato le sue difese aeree nelle regioni orientali e il Giappone ha schierato missili intercettori. Dietro le quinte, l’amministrazione americana è tuttavia ancora impegnata nello scongiurare il ricorso alle armi. Per Andrew Spannaus, giornalista e analista americano, la Nord Corea non attaccherà Guam, limitandosi ad una ennesima azione “dimostrativa”. La crisi nordcoreana tuttavia, oltre a segnare una parziale vittoria del fronte anti-Trump a Washington, avrà conseguenze politiche anche per la leadership del presidente.



Kim Jong-un ha minacciato Guam: entro Ferragosto intende colpire un punto a 30-40 km dall’isola. Se non lo fa, perde la faccia. Qual è la sua previsione?

Kim non attaccherà gli Stati Uniti: sarebbe un atto di guerra che decreta la fine stessa della Nord Corea. A Pyongyang lo sanno. Il dittatore sta probabilmente preparando l’ennesima azione dimostrativa, che sarà più vicina al limite dell’accettabile di quelle che l’hanno preceduta.



Perché si è arrivati a questo?

La settimana scorsa sono state varate nuove sanzioni che colpiscono non solo la Russia, prima destinataria del provvedimento, ma anche l’Iran e la Nord Corea. Le sanzioni sono state imposte a Trump, che rimane contrario e lo ha messo per iscritto in un “signing statement” in cui dice che la legge viola i suoi poteri costituzionali. Siamo in questa situazione perché nel Congresso c’è chi vuole aumentare le tensioni su più fronti, dalla Russia alla Nord Corea.

Di chi è la regia di questa operazione?

In prima fila c’è il senatore Lindsey Graham, falco della South Carolina che insieme a John McCain persegue lo scopo dichiarato di fermare l’apertura di Trump alla Russia. Lo stesso era accaduto sulla Siria. Graham pochi mesi fa è andato da Trump per chiedergli se voleva essere il presidente ricordato per avere permesso alla Nord Corea di minacciare gli Stati Uniti con l’atomica. E’ molto facile influenzare Trump su questo punto.



La posizione americana in queste ore è ambivalente: va dall’ipotesi di un attacco preventivo alla volontà di percorrere la via diplomatica.

Certamente. Il segretario di Stato Tillerson ha usato parole molto più caute e ha detto che la soluzione è solo diplomatica. Se il presidente dovesse decidere di attaccare i militari sarebbero pronti a seguirlo, anche se nell’establishment militare molto pensano che sarebbe una follia, perché si tratterebbe di una guerra preventiva contro chi non ha nessun interesse a muovere guerra agli Usa.

Lei personalmente che cosa pensa?

A mio avviso l’unica strada è quella diplomatica. In questo il ruolo della Cina è fondamentale. Anche Trump ne è consapevole, ma fa l’errore di credere che le minacce di questo tipo mettano più pressione a Pechino. Il meccanismo non è così lineare.

La Cina però ha detto sì alle sanzioni. Ha davvero mollato Kim?

Già da alcuni mesi la Cina ha fatto molti passi per allontanarsi dal suo tradizionale ruolo protettivo verso la Nord Corea, non ultimo il blocco delle importazioni di carbone. Rispetto al passato, Pechino è più disponibile a lavorare per una mediazione, a condizione che non ci sia un conflitto militare ma si cerchi una soluzione diplomatica. Da questo punto di vista, più Kim Jong-un esagera, più mette in difficoltà la Cina.

A Washington si continua a concepire la Nato in chiave antirussa, condizionando in questo modo anche Mosca. Questa politica non favorisce indirettamente le mire della Cina nelle vecchie repubbliche ex sovietiche?

Il problema risiede nel fatto che buona parte dell’establishment americano rimane antirusso. E’ vero, ci sono interessi diversi e contrastanti di Cina e Russia nell’Asia centrale. Tuttavia penso che dal punto di vista strategico lo scontro tra Stati Uniti e Russia tenda attualmente a compattare la linea anti-americana di Mosca e Pechino.

Con Trump alla casa Bianca gli Stati Uniti hanno un fronte interno, quello costituito dal vecchio establishment. I vertici militari politicamente con chi stanno?

Il mondo militare negli ultimi anni è stato più restio a seguire la politica aggressiva tendenzialmente neoconservatrice. Tuttavia l’imprevedibilità di Trump e la sua mancanza di rispetto istituzionale per certi meccanismi dell’apparato gli fa molto male nel rapporto con le istituzioni militari e di intelligence. Questi errori stanno rendendo nuovamente più coeso il fronte istituzionale, pronto a seguire più i militari che sono in politica come Mattis e McMaster (rispettivamente segretario della difesa e consigliere per la sicurezza nazionale, ndr) che non il presidente. I militari eseguiranno gli ordini, ma quanto detto incrementa la crisi di fiducia verso Trump e il suo monopolio dell’iniziativa politica potrebbe risultarne indebolito.

La crisi nordcoreana porterà al riarmo del Giappone e ad una sua maggiore importanza nel Pacifico?

Sì. Dentro le istituzioni americane c’è chi lavora per migliorare i rapporti tra Giappone e Cina, ma si va inevitabilmente in questa direzione.

(Federico Ferraù)