Proseguendo nell’analisi delle situazioni attorno all’Europa, esaminiamo il “Sud”, prendendo in considerazione il complesso ambito regionale che va dal Medio Oriente al Nordafrica, passando per l’area del Golfo Persico.

Divideremo l’analisi in due parti: dapprima il Medio Oriente e il Golfo, successivamente il nord Africa.



1. Il Medio Oriente ha subito, negli ultimi cinque anni, trasformazioni che non si ricordano nelle epoche precedenti. Basti pensare che la madre di tutti i conflitti, la guerra tra israeliani e palestinesi, che per quasi 70 anni ha tenuto il mondo con il fiato in sospeso, è stata praticamente derubricata ad uno scontro “provinciale”, di fronte ai drammi di Iraq e Siria e all’esplosione del califfato di Daesh (Isis); drammi che, peraltro, fanno passare sotto traccia numerose altre crisi, dalla sanguinaria guerra civile in Yemen alle continue tensioni nelle zone abitate dai curdi.



Le radici di questo precipitare di eventi stanno certamente in una serie di errori storici compiuti da diversi attori nella regione.

 

 

2. Iraq — Anzitutto, l’intervento americano di Bush Junior, che eliminò Saddam Hussein senza pianificare una transizione successiva al suo regime. Saddam, pur essendo un sanguinario dittatore, aveva sempre garantito un governo laico e protetto le minoranze (il più influente membro del Governo, il vice primo ministro e ministro degli Esteri Tareq Aziz, era cattolico caldeo). La guida del Paese, dopo Saddam, fu affidata a Nuri Al Maliki, integralista sciita, e venne completata la dissoluzione del partito non confessionale Ba’th, che controllava l’esercito, con la conseguente epurazione dei vertici militari. Seguirono anni nei quali, in un Iraq non più controllato né politicamente né militarmente, la tensione tra la maggioranza sciita e la minoranza sunnita crebbe vistosamente, favorendo tra l’altro l’emergere delle condizioni per la nascita e l’affermazione di Daesh.



3. Isis — Il progetto di Abu Bakr Al Baghdadi, acutamente analizzato sul sussidiario da Caleb Wulff nel suo intervento del 9 agosto scorso, è un fenomeno di estrema complessità. Esso ha la pretesa di creare il nuovo stato islamico sul modello dell’antico califfato del VI e VII secolo. Uno Stato che si preoccupa dei propri cittadini garantendo loro i servizi necessari, che si dota di un esercito e che non esita a usare qualsiasi strumento, compreso il terrorismo, per diffondere la propria immagine radicale nel mondo e per finanziare le proprie attività. A noi europei, di Daesh colpisce soprattutto la dimensione terroristica, per evidenti motivi. Tuttavia, ciò che ha davvero distinto l’Isis da altri gruppi terroristici è stato proprio l’aver preso possesso e controllo di una vasta porzione di territorio, “invasa” e strappata ad altri Stati: un controllo esercitato forse (e certamente, con il passare del tempo) più con il terrore che con la benevolenza dei suoi cittadini, e approfittando senza dubbio di varie fratture (sociali, economiche, religiose), ma comunque inspiegabile senza tener conto della fortissima carica ideologica che, almeno nei primi tempi, ha permesso di fidelizzare un numero così alto di persone. 

Di fronte a questa evidenza, appaiono dunque irrealistiche le dichiarazioni di chi ritiene ormai sconfitto il nemico, dopo la riconquista di alcune roccaforti come Mosul. Certo, l’indebolimento militare di Daesh ne ridimensiona o rallenta il progetto, ma certamente non ne elimina la pretesa di essere, dentro il mondo sunnita, la punta radicale estrema.

4. Siria — Il secondo errore è stato compiuto da Obama che ha dapprima sostenuto i ribelli che combattevano contro il regime di Assad, senza peraltro ottenere alcun risultato concreto, e successivamente ha deciso di ridurre la propria presenza nel Medio Oriente. Così facendo, ha lasciato la Siria in preda ad una autentica guerra civile nella quale, in sei anni, si sono avuti oltre 450mila morti. Questa situazione di conflitto permanente ha costituito, a sua volta, terreno fertile per le componenti radicali islamiste.

Lo scenario siriano ha dato luogo a uno dei più grandi drammi della storia del Medio Oriente, causando migrazioni di massa di proporzioni inedite. Dopo sette anni di guerra, su una popolazione di poco più di 20 milioni di abitanti, si contano 6 milioni di rifugiati fuggiti all’estero e 6 milioni e mezzo di quelli che vengono definiti Idp (Internally Displaced People), cioè sfollati da una parte all’altra all’interno del Paese. Il dato fondamentale è che oltre i tre quarti di queste persone stazionano in Turchia (quasi 3 milioni) e Giordania, dove un quarto della popolazione è oggi composta da rifugiati siriani, Libano, Israele e territori palestinesi: ciò provoca contraccolpi rilevanti sui delicati equilibri geopolitici della regione. Il permanere di questi rifugiati negli Stati circostanti la Siria ne indica, peraltro, la volontà di tornare nella propria terra, una volta finito il conflitto. In questa direzione si muove anche il dato relativo ai primi sei mesi del 2017, nei quali mezzo milione di rifugiati siriani ha fatto ritorno nel proprio Paese.

Di fronte ai tragici errori degli Stati Uniti abbiamo assistito ad anni di indifferenza o di impotenza della comunità internazionale, a partire dall’Onu, ad intervenire in modo autorevole per fermare la strage in Siria. In questa situazione era inevitabile che qualche attore riempisse i vuoti lasciati da altri. L’intervento unilaterale della Russia, sostenuto dalla Turchia, è stato fatto passare come un contributo alla lotta contro Daesh ma, in realtà, è servito a sostenere il regime di Assad, che garantisce ai russi le basi strategiche sul Mediterraneo, proprio di fronte all’ingresso del Mar Nero. Infatti, Mosca ha attaccato i ribelli anti-Assad e non i terroristi di Daesh.

Oggi la stabilizzazione della Siria è certamente il principale problema del Medio Oriente. La nuova amministrazione americana sembra determinata a invertire la tendenza di disimpegno instaurata da Obama, ma gli scenari futuri sono ancora assai imprevedibili, almeno finché sarà garantita ad Assad la libertà di azione e il sostegno di importanti attori quali la Russia e la Turchia, situazione che non permette, nei fatti, la rappacificazione di questo tormentato Paese.

A fare le spese, più di altri, dei conflitti in Iraq e Siria e dell’espansione del terrorismo, sono state le minoranze religiose e, principalmente, i cristiani. Questo dramma nel dramma mette a repentaglio la storica presenza cristiana in Medio Oriente, che ha da sempre contribuito allo sviluppo di quelle terre: oggi i cristiani risultano in leggero aumento solo in Israele, mentre negli altri Paesi della regione stanno vertiginosamente diminuendo come numero e come efficacia di testimonianza dentro la società.

(1 – continua)