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5. Golfo Persico — La regione del Golfo è, da decenni, al centro della attenzione mondiale, per aver costituito il punto di equilibrio del complesso mercato globale del petrolio. Le trasformazioni che il settore energetico ha subito negli ultimi anni ne hanno, tuttavia, ridotto progressivamente l’importanza, e il crollo del prezzo del greggio, sceso all’inizio del 2015 sotto i 50 dollari a barile, ha dato inizio ad un periodo di crisi anche per i ricchi Paesi della regione.
L’Arabia Saudita, abbandonata anche da Obama con la sua politica di arretramento dal Medio Oriente e messa a dura prova dal sanguinoso conflitto con lo Yemen, ha visto diminuire progressivamente la propria capacità di influenza. Un anno e mezzo fa ebbi l’occasione di incontrare personalmente Re Salman, che mi disse chiaramente come il suo Paese stesse lavorando per creare una nuova economia non più basata sul petrolio: 250mila giovani mandati a studiare all’estero sono la cifra della volontà di costruire una nuova classe dirigente non più seduta sui facili guadagni garantiti dall’oro nero. Artefice di questo progetto, denominato “Vision 2030”, è il potente figlio del re e ministro della Difesa Mohammad bin Salman, recentemente nominato erede al trono. Riyad si trova anche ad affrontare il tema del terrorismo di Daesh, che ha inizialmente finanziato nell’ambito della propria contrapposizione alle componenti sciite nella regione, e che ora è sfuggito al controllo, creando seri rischi di radicalizzazione anche all’interno del Paese.
Il ritorno in auge dell’Iran, nuovamente legittimato di fronte alla comunità internazionale dopo l’accordo sul nucleare voluto dallo stesso Obama, ha ulteriormente fatto salire la tensione in una regione storicamente condizionata dal conflitto interno al mondo islamico tra sunniti e sciiti. L’Iran, infatti, costituisce oggi, per la monarchia saudita e per i suoi alleati — in particolare gli Emirati — un competitor sempre più ingombrante e scomodo. Sostiene infatti la componente sciita dell’Iraq e finanzia gli Hezbollah in Libano e Hamas in Palestina, nel tentativo di costruire e rafforzare la “mezzaluna sciita”, ossia un corridoio ininterrotto di terre a maggioranza sciita che, geograficamente, accerchi e metta pressione ai sunniti sauditi, alimentando così l’instabilità nell’intera regione.
La visita a Riyad di Trump, con la sua dichiarata avversione al regime di Teheran, ha però posto la premessa per un rilancio dell’influenza saudita nel Golfo. La prima conseguenza è stata la messa al bando da parte di Arabia, Bahrein, Emirati, Egitto e Yemen, del Qatar, accusato di finanziare il terrorismo (da quale pulpito viene la predica): ma la vera ragione sono i rapporti che lo stesso Qatar intrattiene da tempo con l’Iran, rapporti in primis economici, dato che i due Stati condividono un enorme giacimento di gas.
Tutto questo dimostra come le tensioni nell’area del Golfo siano tutt’altro che destinate a diminuire nel prossimo futuro, e l’unico piccolo Paese che ancora mantiene una neutralità — imposta anche dalla propria collocazione geografica —, l’Oman, si troverà probabilmente ad affrontare scenari assai più preoccupanti e complessi, specie quando vi sarà l’uscita di scena dell’anziano e illuminato sultano Qabus Al Said che, nei suoi 47 anni di regno, ha saputo garantire un ruolo e una capacità di mediazione ad una piccola realtà che rappresenta una specie di Svizzera del Medio Oriente.
6. Israele e Palestina — Anche il conflitto israelo-palestinese viene influenzato da questi mutamenti rapidi e, per certi versi, imprevedibili fino a poco tempo fa. Un conflitto congelato da tempo, che vede oggi i due principali attori, Netanyahu e Abu Mazen, accomunati dall’interesse di mantenere lo status quo: il primo perché il riaccendersi di ostilità aperte lo vedrebbe in oggettiva difficoltà di fronte alla comunità internazionale, il secondo perché ormai indebolito nella propria popolarità di fronte all’aggressività di Hamas. Paradossalmente, l’Iran sta diventando un altro elemento di “coesione” tra i due protagonisti del confronto: Netanyahu ormai ha individuato Teheran come il vero pericolo per Tel Aviv, al punto di fare asse con lo storico nemico saudita contro il rischio di aggressioni iraniane, Abu Mazen deve tagliare le fonti di finanziamento ad Hamas per garantirsi la sopravvivenza e per sperare in una progressiva ricomposizione del conflitto con Israele. Ho incontrato personalmente Abu Mazen poche settimane fa, in una Ramallah divenuta città moderna e sviluppata, e in un lungo colloquio ho potuto constatarne la lucidità e la determinazione, nonostante l’età ormai avanzata; tuttavia non ho potuto non notare come la classe dirigente palestinese sia ancorata a una visione del conflitto e delle sue possibili soluzioni che va certamente superata e adeguata ai nuovi equilibri nell’intera regione.
7. Egitto — Il suo ruolo è sempre stato fondamentale negli equilibri medio-orientali. Oggi il Paese vive una situazione interna di grande difficoltà economica e sociale, che ne ha indebolito l’influenza. Esso resta, tuttavia, un soggetto imprescindibile quando si analizzano le dinamiche della regione. Il suo buon rapporto con Israele garantisce a entrambi il controllo della complessa frontiera del Sinai e la storica collaborazione con l’Arabia Saudita costituisce un asse fondamentale di equilibrio a sud (il recente episodio della “vendita” delle isole di Sanafir e Tiran ai sauditi ne è testimone).
8. Turchia — Sulla Turchia vi sarebbero moltissime cose da dire, in senso negativo ma anche in chiave positiva. Sul primo fronte non si può non rilevare l’atteggiamento ondivago di Erdogan, che per anni ha oscillato tra l’ambizione di essere il leader del mondo islamico, la voglia di ricostituire l’impero ottomano (entrambi sogni impossibili) e l’idea di costruire un rapporto organico con l’Occidente e l’Europa. Atteggiamenti che lo hanno portato, di volta in volta, ad essere amico di Israele per poi diventarne avversario, a sostenere Assad per poi attaccarlo e ora nuovamente — nell’asse con la Russia — lavorare per lui, ad abbattere un jet russo e, dopo il fallito golpe, andare a Mosca da Putin col cappello in mano. Il suo progressivo indebolimento interno lo ha portato ad assumere atteggiamenti gravissimi e ingiustificabili nei confronti degli oppositori politici, e questo ha gettato una pessima luce sull’intero Paese. Che, invece, ha indiscutibili meriti storici e attuali che non possiamo dimenticare. L’Occidente, infatti, ha usato la Turchia per decenni come cuscinetto, politico, economico e militare, verso i rischi provenienti dal Medio Oriente e dall’Iran. La Turchia ha conosciuto, negli ultimi vent’anni, uno sviluppo economico straordinario, e Erdogan ha condotto il Paese in questa lunga fase meritandosi il larghissimo consenso che oggi si sta erodendo sempre più per l’immagine tirannica che il leader ha assunto. Il Paese ospita oggi tre milioni di rifugiati siriani e iracheni, tra i quali centinaia di migliaia di cristiani e yazidi sfuggiti alle persecuzioni religiose di Daesh.
Senza dimenticare la lotta di Erdogan con i curdi, che tenacemente rivendicano quell’autonomia territoriale (non solo in Turchia, ma anche in Iraq, Siria e vari altri paesi della regione) a cui aspirano da tempo immemore, e per la quale non esitano ad usare tutte le armi a disposizione, dall’opposizione parlamentare agli attentati terroristici (chiaramente, ciò a seconda dei diversi gruppi, che si differenziano per natura e modus operandi). Curdi che, però, fanno comodo nella lotta contro Daesh, e che dunque ricevono sostegno dall’Occidente, motivo di ulteriore frizione con la Turchia.
Insomma, tutto questo disegna un Paese in chiaroscuro, che resta pur sempre un attore indispensabile negli equilibri geopolitici del Medio Oriente.